IO SONO IL PASSATO

Spalancai gli occhi e scattai in avanti a sedere. Ansimavo affannosamente, afflitta da un acuto senso di nausea e di vertigini, i polmoni che bruciavano nello sforzo di respirare. Le mani artigliavano il lettino su cui ero stata adagiata, come se mi aggrappassi per non cadere. Percepivo un intenso formicolio solleticare tutto il corpo e rabbrividii per il fastidio. La luce era di un bianco accecante, così vivido da risultarmi doloroso.

Continuavo a boccheggiare, non riuscivo a smettere. Mi sentivo come un marinaio che, avendo lottato contro gli abissi per non essere inghiottito e trascinato nel loro profondo e tetro baratro, era emerso all’improvviso dal mare scuro, annaspando tra i flutti in cerca d’aria. Un naufrago che si dibatteva con furioso accanimento per rimanere a galla.

Mi coprii il volto con le mani, cercando di calmarmi. Le dita erano gelide. Le guardai con orrore, osservandone il candore cinereo che in qualche punto era quasi violaceo. Erano così smorte, pallide ed esangui che cominciai ad agitarmi. Il cuore cominciò a battere sempre più velocemente, assecondando quel senso di inquietudine che mi attanagliava. Posai lo sguardo sulle mani fredde e bianchissime, che lentamente riacquistavano colore.

Sbarrai gli occhi, pietrificandomi. Il cuore batteva, mi sconquassava il petto. Terrorizzata, lanciai un grido: perché palpitava ancora? Eppure aveva cessato di farlo, di questo ero certa. Sì, ne ero sicura, perché io ero morta in un incidente stradale. Morta nell’impatto, sul colpo. Non c’era stato nulla da fare per salvarmi.

Il panico si impossessò di me e presi a tremare convulsamente. In un attimo rievocai gli istanti che avevano preceduto la tragedia, immagini e suoni che si rincorrevano incessanti nella mia mente, confondendosi in un caos indicibile. Il camion che si dirigeva fuori controllo e velocissimo contro di me, il raggelante orrore che mi aveva assalito, l’urto, il frastuono metallico, un grido acutissimo e assordante che, involontariamente, avevo emesso.

Ero rimasta stritolata e schiacciata nel disastro, quindi che ci facevo qui, integra e viva? Mi raggomitolai su me stessa, prendendomi la testa tra le mani e dondolando avanti e indietro, mugolando. Perché ero tornata? Cosa era successo? Come? Dove mi trovavo? Non avevo nessuna risposta.

Scoppiai in lacrime. Tutto questo era semplicemente inconcepibile, impossibile da comprendere, al di là di ogni spiegazione razionale.

Com’era possibile che quella tenebra simile alla nera profondità degli oceani, quella tenebra implacabile e muta che di norma lega a sé senza lasciare via di scampo, mi avesse lasciata andare? Perché la morte non mi stringeva più nella sua morsa, nel suo gelido abbraccio?

Mi venne mal di testa per tutti quei pensieri assurdi eppure legittimi. Ancora indebolita e pervasa dal senso di nausea e di vertigine, scesi con cautela dal lettino. Scoprii di essere scalza e il freddo del pavimento mi percorse le membra con la violenza di una scarica elettrica. Rabbrividii.

Azzardai qualche passo, cercando di mantenere l’equilibrio. Con estrema lentezza mi aggirai incerta per quello che compresi essere un laboratorio. Non c’era nessuno in giro, anche se la luce era accesa, quella fastidiosa luce di un bianco abbacinante. Man mano che camminavo, acquistavo sicurezza nell’andatura e mi sentivo più forte, non più debole e tremolante.

Attraversai innumerevoli corridoi, sale dalle apparecchiature inquietanti e varcai tantissime soglie: quella struttura aveva un che di labirintico. Giunsi infine davanti ad una grande porta in metallo e dentro di me sapevo che oltre di essa avrei trovato la verità: ero l’unica persona vivente in un universo parallelo oppure ero tornata dai morti?

Non essendo ancora nel pieno delle mie forze, feci fatica nell’aprire il portone, ma tuttavia alla fine ci riuscii. I cardini girarono cigolando e davanti a me apparve un paesaggio notturno. Il cielo era un lago di inchiostro puntellato di scintille bianche e la luna rotonda e luminosa osservava con distacco gli eventi. Nonostante fosse molto buio, notai che il laboratorio era nel mezzo di un’area boschiva, una zona immersa nel silenzio. Le fronde degli alberi frusciavano armoniosamente al minimo soffio di vento frizzante. Ogni tanto si sentiva il basso richiamo dei gufi o il tramestio di qualche animaletto tra i cespugli.

Davanti a quello spettacolo non provai timore, ma un meraviglioso senso di pace e di tranquillità. Inspirai profondamente, riempiendo i polmoni di quella piacevole brezza. Chiusi gli occhi e allargai le braccia, per godermi al meglio quella sensazione. Sorrisi, cosa che non avrei mai pensato di poter fare ancora.

Decisa a scoprire dove fossi esattamente, mi posi come obiettivo uscire da lì per cercare un luogo abitato in cui essere ospitata. Vagai per tutta la notte nella foresta, scalza, indossando solo un candido e leggero camice. Versi e passi indefiniti mi spaventavano alquanto, così raccolsi da terra un ramo piuttosto robusto per difendermi. Spesso mi dovetti fermare, esausta per la debolezza, afflitta da attacchi di nausea e dal dolore dei tagli sotto i piedi nudi. Quando realizzai di avere fame, mi venne quasi da ridere per la situazione assurda in cui mi trovavo.

Giunsi nei pressi di una cittadina poco dopo l’alba. Il cielo era ancora tinteggiato di rosa pallido e di striature dorate e perlacee. Mi parve l’aurora più bella che avessi mai visto, forse la sola osservata con deliziata attenzione in questa vita ed in quella precedente.

Avanzai barcollando verso le prime case, spossata e sofferente. Sperai che qualcuno mi ospitasse. Mentre mi avvicinavo sempre di più, con un tuffo al cuore riconobbi la casa di un mio amico. Una gioia ineffabile mi pervase: ero nel mio paese natale! Feci lo sforzo di accelerare il passo zoppicante e con un grande sorriso mi trascinai davanti alla porta d’ingresso.

Erano cambiate molte cose, ma sicuramente si trattava dell’abitazione di Paul. Chissà quanti anni erano passati dal mio incidente, come stava la mia famiglia, come avevano reagito i miei amici alla mia morte… chissà se qualcuno mi pensava ancora.

Presi coraggio e suonai il campanello. Mi resi conto troppo tardi che dovevano essere solo le cinque e mezza del mattino. Mortificata per il disturbo, rimasi incerta sul da farsi. Stavo per andarmene quando sentii dei rumori provenire dall’interno della casa. Qualcuno stava scendendo le scale.

Cominciai a tremare per l’agitazione, non sapendo come comportarmi, cosa dire e in che modo. Soprattutto, come avrebbe reagito Paul?

La porta si aprì e una voce femminile sbraitò scocciata: «Che cosa vuole a quest’ora? Le conviene che sia un’ottima motivazio–»

Ma la voce le morì in gola. Sbarrò gli occhi, incredula ma allo stesso tempo terrorizzata.

«Jane…» dissi sbalordita, in un fil di voce. Non era cambiata molto, la riconobbi subito. Era un po’ più alta di come la ricordavo, ma molto più bella: i contorni del suo viso si erano addolciti e i capelli castani le ricadevano ricciuti sulle spalle. Gli occhi verdi erano sempre gli stessi, scintillanti e invidiabili. «Sorellina…» boccheggiai incredula.

Jane vacillò sul posto e si aggrappò alla maniglia per non cadere. Mi slanciai in avanti per aiutarla, ma lei indietreggiò e strillò, l’orrore dipinto sul volto. «Non mi toccare! Smettila di perseguitarmi!»

La guardai sgomenta, avevo temuto proprio quella reazione. D’altronde, come si sarebbe dovuta comportare? Il mio cuore si gonfiò di lacrime, mentre rimanevo immobile a fissare mia sorella tremare e piangere.

Intanto qualcuno si era affrettato a scendere giù per le scale, facendo un gran rumore. «Chi è là?» gridò con preoccupazione Paul, lasciandomi interdetta. Si erano quindi sposati?

Paul si precipitò da Jane e la condusse con gesto deciso dietro di sé, in atto di difesa. In un primo momento rimase sconvolto alla mia vista, poi si riprese e assunse un’espressione rabbiosa. «Vattene via, miserabile! Come osi prenderti gioco di noi?» esclamò, facendo un passo verso di me con atteggiamento minaccioso.

Mi spaventai ed indietreggiai un po’. «Paul, sono io, sono Catherine…»

«No!» urlò lui, avanzando ancora. «Sei una ragazzetta a cui piace far soffrire la gente! Togliti quel travestimento e lasciaci in pace!»

Lo guardai ferita. «Sono io…». Mi sporsi per vedere oltre le sue spalle. «Jane, sono davvero io! Sono torna–»

«Vattene subito!» sbraitò di nuovo Paul, sbattendomi la porta in faccia. Oltre di essa, sentivo mia sorella in preda ad una crisi di pianto.

Fissai con sguardo vuoto il legno scuro davanti a me, immobile. Sentii le gambe tremare, qualche secondo dopo cedettero. Mi accasciai per terra e scoppiai in lacrime, il dolore era troppo grande per essere sopportato da una persona sola. Mi raggomitolai contro la porta, scossa dai singhiozzi.

Non avrei dovuto mostrarmi a loro, li avevo solo fatti soffrire. Da stupida ingenua mi ero illusa di poter essere accolta con amore, essere abbracciata e consolata, ricevere spiegazioni sulla mia situazione impossibile. Vane speranze.

«I morti sono morti e devono stare con i morti. Non si può stravolgere l’ordine naturale delle cose: la vita va avanti sempre, nonostante i lutti e i dolori. Noi siamo solo passato. Io sono il passato.»

Elena Di Giorgio
Liceo Classico M. Minghetti, II B