Nel gennaio del 1998 viene allestita all’Art Gallery of New South Wales di Sydney una mostra intitolata «Orientalism: From Delacroix to Klee»: 124 dipinti e 50 fotografie per lo più prodotti da artisti europei dell’Ottocento su soggetti riguardanti il Nord Africa e il Levante. Nelle note del catalogo della mostra il nome più frequentemente citato non è, come si potrebbe pensare, quello di un celebre critico d’arte ma del noto critico letterario Edward W. Said, il professore palestinese-americano recentemente scomparso che, con il suo pionieristico saggio Orientalism. Western Conceptions of the Orient (1978) ha inaugurato un dibattito mai spento che coinvolge arte, letteratura e cultura. I dipinti della mostra, si legge nel catalogo, costituiscono la conferma visiva della tesi saidiana sul persistente e insidioso pregiudizio eurocentrico contro le popolazioni e la cultura arabo-islamiche a partire dal colonialismo di fine Settecento.

«Orientalismo» per Said non ha mai tradotto un’idea completamente innocente, il mero interesse scientifico e intellettuale nei confronti delle società e culture del Medio ed Estremo Oriente da parte di studiosi occidentali. Appellandosi, per farli propri, a concetti formulati da Nietzsche, Gramsci, Foucault e Derrida, egli sostiene che ciò che sin dal Settecento viene indicato come «orientalismo» è un costruzione ideata dall’Occidente per soggiogare l’altro» attraverso un discorso egemonico basato sul rapporto stretto tra conoscenza e potere e sull’opposizione binaria (ontologica ed epistemologica) tra Ovest (soggetto, forte, maturo, razionale, maschile, dinamico, attivo) e Est (oggetto, debole, infantile, irrazionale, femminile, statico, passivo) – caratteristiche queste ultime che Hegel attribuisce alle civiltà cinese e indiana nella sua Filosofia della Storia (1837). Dal post-strutturalismo Said deriva la nozione di «alterità» come presupposto per determinare la propria identità in negativo: l’occidente ha costruito l’idea di sé riconoscendo ciò che l’ «altro» non era, facendo sì, quindi, che l’orientalismo portasse alla costruzione e alla definizione non solo dell’est ma anche dell’ovest – «The Orient is an integral part of European material civilization and culture»

[Said, E. W. (1995): Orientalism, London, Penguin Books, p. 2]. Oriente come alter ego dunque, ovvero bisogno di un «altro», sia a livello individuale sia a livello collettivo e nazionale, per auto-definirsi; una tesi opinabile tuttavia, in quanto non basata su reali condizioni storiche ma su un assunto epistemologico derivato dalla teoria strutturalista.
Ma quando l’altro diventa immagine capovolta di sé, una proiezione dei propri desideri come anche delle proprie ansie, le cose si complicano e il risultato è un rapporto est-ovest (e viceversa) molto più complesso, in quanto caratterizzato dalla continua tensione tra repulsione e attrazione del diverso, curiosità e timore dell’ignoto che si vuol rendere familiare, desiderio e ansia di appropriazione di un complesso di valori che rappresentano, a un tempo, una fuga e una minaccia per la cultura occidentale. Come una femme fatale, l’Oriente incarna per i Romantici una figura e un luogo tanto affascinanti quanto pericolosi, locus amenus ma anche paradiso artificiale, «spazio» reale da conquistare ma anche topos immaginario e onirico. Secondo Said questi sono alcuni degli stereotipi che formano l’«orientalismo latente», cioè basato su una concezione essenzialista dell’identità e di solito associato a forti connotazioni sessuali, ad aberranti concetti di superiorità e inferiorità. Senza dubbio, tutta la letteratura romantica europea ne è pregna, tanto che nessuna lista di esempi, per quanto cospicua, potrebbe fedelmente rappresentare la ricchezza ed eterogeneità del materiale iconografico, musicologico e letterario di stampo orientalista prodotto tra Sette e Ottocento.
I dipinti della mostra di Sydney raffigurano in maniera paradigmatica questi stereotipi e luoghi comuni che, come déjà vu, evocano immagini esotiche (ma progressivamente vicine, per un processo di familiarizzazione ), quel gusto romantico del favoloso, quella sontuosità e sensualità di colori, odori e sapori altri che si contrappongono alla monotona ordinarietà e al vacuo materialismo del mondo occidentale. Tuttavia, l’esotismo e l’orientalismo romantici vanno ben al di là di questa celebrazione spesso idealizzata della cultura levantina, rappresentando un programma culturale più ampio e complesso. Nonostante siano trascorsi ventisei anni dalla sua pubblicazione, Orientalism suscita ancora oggi riflessioni sulle valenze non solo letterarie ed estetiche di termini quali «esotismo» e «orientalismo» nella letteratura e cultura europee del tardo Settecento e dell’Ottocento, termini allora per molti versi interscambiabili pur indicando – teoricamente – l’uno un’estetica e una poetica, nonché un immaginario, al di là di tempi e luoghi specifici, l’altro un «discourse», un sistema culturale-ideologico, oltre che una disciplina, riconducibili a determinate coordinate storiche e geografiche.
In effetti, se la disciplina degli studi orientali si può far risalire al 1312, anno in cui il Consiglio Ecclesiastico di Vienna introdusse cattedre di arabico, greco, ebraico e siriano nelle università di Parigi, Oxford, Bologna, Avignone e Salamanca, è solo dalla seconda metà del Seicento che il mondo orientale entra nell’immaginario e nel costume europei grazie ai racconti di viaggiatori francesi sulle meraviglie del Levante, preso in toto, dal Nord Africa al Medio Oriente alla Cina, come locus e topos esotici. La traduzione di un manoscritto arabo da parte del francese Antoine Galland agli inizi del Settecento segna un ulteriore progresso nella diffusione della civiltà orientale in Europa: si tratta dei racconti in dodici volumi delle Mille et une nuit (1704-1717), tradotti immediatamente in inglese come Arabian Nights’ Entertainments. Non si può, però, ancora parlare di un sistematico progetto culturale o di un’impresa collettiva con inevitabili conseguenze politiche ed economiche, progetto e impresa che, invece, emergono e si consolidano a partire dalla seconda metà del Settecento. In particolare, lo storico francese Raymond Schwab stabilisce come data d’inizio di tale processo il 1770, anno in cui il francese Anquetil du Perron traduce lo Zend-Avesta (libro sacro parsi sul culto persiano di Zoroastra), mentre secondo Said il punto di partenza è l’invasione dell’Egitto nel 1798 da parte di Napoleone Bonaparte, accompagnato da una ricca coorte di studiosi smaniosi di penetrare quel mondo ancora misterioso.
In verità, già prima dell’arrivo di Napoleone in Egitto, questo tipo di orientalismo che si può definire «accademico» si afferma nella colonia indiana inglese intorno al 1784 con la fondazione della Asiatick Society of Bengal da parte di William Jones ed altri collaboratori di William Hastings, governatore generale della East India Company. Come l’orientalismo pittorico francese dell’Ottocento, il programma intrapreso dalla Society non ha ancora una valenza imperialistica negativa, ma prevede una conoscenza dell’altro (tramite letture e traduzioni testuali) nel rispetto delle leggi e dei costumi locali, dunque una forma di collaborazione e compenetrazione culturali che, alcuni decenni dopo, verranno travolte dal cosiddetto «Anglicist approach» – l’evangelismo alleato all’utilitarismo fanno sì che l’istruzione locale venga sostituita dal sistema anglosassone, cosicché ciò che era un’innocua ricerca filologica e letteraria si trasforma in una falsa missione civilizzatrice e nel presunto «White Man’s burden». D’altra parte, in Francia, attorno al 1810, Chateaubriand farà appello all’Europa affinché insegni agli orientali il significato della libertà. Contrariamente ad alcuni suoi detrattori (come David Kopf, Sheldon Pollock e Sadik Jalal al-‘Azm, per citarne alcuni), Said vede l’orientalismo sostanzialmente come alleato del colonialismo e dell’imperialismo nell’affermazione di un potere egemonico su gruppi etnici più vulnerabili. Il suo punto di vista è inevitabilmente influenzato dalla storia del Medio Oriente dal 1948 in avanti. In realtà, tra Sette e Ottocento prevalgono le due accezioni di orientalismo – l’una un genuino interesse e un attento studio della cultura dell’est, l’altra un costrutto mentale basato su fallaci convinzioni come quella dell’esistenza di una «psiche orientale»; l’una aperta a proficui scambi culturali e persino commerciali tra est e ovest, l’altra determinante tutta una serie di ansie imperialistiche e conflitti psicologici che gli scrittori romantici traducono in conturbanti e perturbanti narrazioni gotiche (i.e. Clara Reeve e William Beckford) o in versi pervasi da quel discorso dialogico, quell’eterna ironia di contrasti che attraversano tutta la letteratura romantica (i.e. Byron, Shelley, Nerval, Goethe).
Studi recenti hanno dimostrato che l’orientalismo è sempre stato un fenomeno, così come un discorso, polifonico ed eterogeneo, non riducibile all’opposizione binaria tra est e ovest al centro dell’argomentazione saidiana. Si dovrebbe piuttosto parlare di una varietà di «orientalismi» nel periodo romantico, dal network accademico esemplificato dalla Asiatick Society ad uno stile e un’estetica ben precisi, dal discorso relativo alla manipolazione di un oriente attaccabile da parte di un occidente politicamente ed economicamente superiore alla sineddoche di una raffigurazione dell’altro basata sul rapporto gerarchico tra gruppo egemonico e gruppo subalterno. Se in alcuni casi i romantici identificano l’oriente come l’opposto (il doppio da allontanare) della cultura razionalista e raziocinante dell’occidente, in altri casi l’opposto si trasforma in alter ego e le differenze si neutralizzano a favore delle affinità.
Critiche come Billie Melman e Lisa Lowe hanno confutato l’opinione di Said secondo la quale l’orientalismo è esclusivamente una «male province» in quanto orientalismo e imperialismo, come discorsi egemonici, riguardano il potere nella sfera pubblica (convenzionalmente maschile). In realtà, molte donne giustificarono l’intervento coloniale e l’ideologia dell’Impero quali mezzi per introdurre sistemi più liberali in società discriminatorie nei confronti del sesso femminile. D’altra parte, però, già dal Settecento, si fa strada una visione non più eurocentrica dell’oriente da parte di donne che, come Lady Mary Wortley Montagu (autrice delle Turkish Embassy Letters, 1717-1718), visitarono direttamente i luoghi orientali e per le quali lo stesso harem, da scenario esotico per antonomasia, diventa ora l’immagine riflessa della casa borghese (per la reificazione del corpo femminile e il ruolo subalterno della donna), ora il suo doppio (luogo del piacere emancipato e di una sensualità non più proibita).
Nell’età romantica «esotismo» e «orientalismo» formano un unico discorso polisemico che racchiude tutte le connotazioni dell’alterità e del diverso, traducendosi nei molteplici linguaggi letterari, teatrali, scenografici, figurativi, architettonici, musicali, della moda e del costume epocali. Questo discorso comprende l’erotismo, l’edonismo, l’esotismo, la violenza e l’amore de Le mille e una notte, l’indelebile immagine di un oriente fatto di odalische, visir, califfi e eunuchi. Comprende la dimensione mistica, misteriosa e perturbante dell’Est come nelle liriche di Novalis, Hölderlin e del Kubla Khan coleridgiano. Comprende lo stile turco, l’arabesco e la Chinoiserie che influenzarono la moda, il teatro, la pittura, l’opera e il romanzo sentimentale, e comprende altresì la grande moda tra gli aristocratici del tempo di farsi ritrarre in costumi orientali. Persino Maria Antonietta e le sue cortigiane alla fine portavano vestiti «alla sultana». Infine comprende anche una componente materialistica e consumistica il cui eccesso può provocare ansie di possesso o di perdita di controllo: l’importazione di tutta una serie di merci e prodotti orientali, sinonimo di apertura verso l’altro ma anche della sua appropriazione (è noto, per esempio, che Napoleone avesse tessuti di arredamento orientale). Ma dietro questa immagine del «gorgeous East», di un oriente spettacolare stile Impero, si nascondono anche altri significati.
Esotismo e orientalismo romantici formano un discorso proteico, comprendente anche la concezione di un nuovo umanesimo, inteso come incontro, scambio e interpenetrazione di culture diverse le quali permettano il ripensamento di quello che per secoli è stato ritenuto un abisso invalicabile tra oriente e occidente. Basti pensare al fruttuoso influsso dell’elemento orientale sull’impressionismo musicale francese, sull’opera lirica italiana, sul più tardo romanticismo della scuola viennese e sul movimento inglese fin de siècle delle Arts and Crafts. I romantici compresero e seppero sfruttare al meglio le potenzialità e le energie di un tale dialogo, sfidando l’idea che le differenze possano comportare essenze in opposizione o rapporti univoci di predominio e sudditanza, e leggendo le tensioni e i conflitti come momenti dialettici di riflessione e contrappunti d’inestimabile potenza creativa.

Questo numero de La Questione Romantica è stato curato da Gioia Angeletti