I linguaggi utilizzati dai poeti e dai drammaturghi europei nel periodo romantico costituiscono il filo conduttore dei saggi qui raccolti: linguaggi variegati, spesso ibridi e ambigui capaci di attraversare codici e generi.
William Keach, nel saggio «Romanticism and Language» del 1993

[The Cambridge Companion to Romanticism], e nel più recente Arbitrary Power: Romanticism, Language, Politics del 2004, rileva il «distinctly linguistic turn» assunto dalla critica letteraria negli ultimi decenni. Egli sottolinea come l’attenzione critica degli studi teorici sul segno linguistico e la sua rappresentazione si sia estesa fino a comprendere il rapporto più complesso tra Romanticismo e linguaggio da una prospettiva storica e culturale. Di conseguenza, osserva Keach, i testi romantici in versi e in prosa, – come quelli di Wordsworth, Coleridge e Shelley – sono divenuti oggetto di una interpretazione, oltre che di tipo post-strutturalista, e quindi di un’analisi propriamente linguistica – peraltro già anticipata dagli stessi scrittori romantici nei loro trattati teorici – anche, e al tempo stesso, di un approccio neostoricista, che implica lo studio della linguaggio letterario visto nel suo contesto storico, culturale e sociale.
La teoria della lingua era ampiamente dibattuta all’interno della letteratura romantica, sia da una prospettiva filosofica sia propriamente linguistica, e questo dibattito ha contribuito ad articolare questioni fondamentali circa la relazione tra parlanti e ascoltatori, tra la lingua e il mondo. Gli intellettuali romantici, influenzati dalle teorie linguistiche provenienti soprattutto dalla Germania, ma anche dalla Francia, attingevano alla tradizione illuminista per elaborare la definizione concettuale di elementi chiave della rappresentazione verbale. In particolare, gli autori romantici concentrarono la loro attenzione sulla complessa relazione tra parole, pensiero e cose, investigando i processi sociali e storici attraverso i quali la lingua si afferma e al contempo subisce mutazioni, soffermandosi in modo particolare sulla correlazione tra linguaggio ordinario e linguaggio poetico e prosastico.
Il pensiero proposto da Locke nel suo Essay Concerning Human Understanding (1690) influenzò in maniera decisiva la riflessione linguistica romantica, la quale, muovendo dalle teorie filosofiche illuministe, veniva elaborando risultati originali. Gli intellettuali che si cimentarono nel dibattito sulla funzione della lingua furono numerosi e di diverse nazionalità: poeti (Coleridge, Shelley), romanzieri e filosofi (Godwin, Fichte, Schelling) e linguisti (Humboldt) composero rispettivamente, poemi o drammi teatrali, romanzi e trattati teorici o critici, in cui la lingua era oggetto di analisi, utilizzando approcci diversi, ma nell’unanime tentativo di spiegare il meccanismo del linguaggio, le sue interazione e il suo funzionamento.
Nello specifico, la letteratura tra Sette e Ottocento, è interessata ai meccanismi del linguaggio da un punto di vista teorico per le sue articolazioni e arbitrarietà, ma anche da una prospettiva storico culturale per le sue potenzialità politiche e la capacità di veicolare relazioni di potere. Il linguaggio dei romantici è dunque un linguaggio «performativo», come lo definisce Angela Esterhammer [The Romantic Performance. Language and Action in British and German Romanticism, 2000] perché rappresenta e crea, si rivela e si nasconde, trasformandosi continuamente a seconda del genere letterario in cui viene impiegato. È un’espressione linguistica, quella utilizzata dagli scrittori romantici, che mette in scena gli opposti e dà voce al confronto, che è fonte di energia ed esprime l’attività e il movimento che stanno alla base di un mondo ideale, la cosiddetta «Romantic ideology», tanto diffusa e disseminata da risultare difficilmente classificabile e contenibile in un’unica definizione. Il linguaggio romantico è dunque non solo descrittivo, ma, dialogando con il passato e proiettandosi verso il futuro, dà forma al presente, diventando all’interno del testo letterario un agente attivo, atto a creare identità tanto singole quanto collettive e a dare loro vitalità e legittimità.
Nei saggi raccolti in questo numero il linguaggio romantico è al centro di una riflessione che fa riferimento ad autori inglesi, tedeschi, italiani e russi. Esso si modifica di volta in volta a seconda del genere per il quale viene utilizzato, e secondo modalità specifiche esprime i valori dell’individuo oppure di una comunità. Fredrick Burwick analizza l’«ironia romantica», prestando particolare attenzione al metadramma, in quanto genere foriero di un linguaggio ironico propriamente drammatico, che risente della grande influenza degli autori tedeschi, e che si propone come strumento atto a rappresentare il soprannaturale e il demoniaco. Carla Pomarè, invece, mette in luce il linguaggio ibrido utilizzato da Byron nelle «Hebrew Melodies», liriche che si rifanno alla tradizione dell’Antico Testamento, e che prevedono l’accompagnamento di uno strumento musicale: il poeta ricorre ad un linguaggio derivato dalle Sacre Scritture trasformandolo in un monologo che anticipa nella forma il dramatic monologue vittoriano. La riflessione linguistica di P.B. Shelley è, con le sue ambivalenze, al centro della riflessione proposta da Fabio Liberto. Infatti, se da un lato il poeta ritiene che la lingua debba avere uno scopo comunicativo, così da veicolare un messaggio politico e raggiungere le masse, dall’altro ne riconosce tutta l’autoreferenzialità. Secondo Shelley, la lingua riflette un codice arbitrario ed oscuro che imprigiona il pensiero, e il compito del poeta è di riuscire a penetrarlo e a comprenderlo.
Il linguaggio drammatico e il teatro, in quanto luogo privilegiato della sperimentazione linguistica, costituiscono il tema di vari saggi. In particolare, Jacopo Doti presenta la tragicommedia Boris Godunov di Puškin come opera dalla forma ibrida e di difficile classificazione, frutto di contaminazioni linguistiche, influenzate dalla lettura dei drammi storici di Shakespeare. Nell’articolo dedicato a Pamela di Richardson e ai successivi adattamenti teatrali in Europa, Carlotta Farese mostra come il linguaggio teatrale si riveli frutto di continue rielaborazioni e adattamenti che, muovendo dalla tradizione precedente, mirano a soddisfare le esigenze di un nuovo pubblico. Serena Baiesi descrive le dinamiche letterarie e sociali che animavano la scena operistica inglese tra Sette e Ottocento attraverso la complessa vicenda biografica del poeta italiano Lorenzo da Ponte, librettista e verseggiatore per il teatro dell’opera, promotore della cultura e della lingua italiana in Inghilterra.
L’ultima sezione è dedicata all’influenza del linguaggio poetico inglese del periodo romantico sulla produzione in versi slovena e italiana. Igor Maver commenta le traduzioni delle opere di Byron pubblicate in Slovenia a metà dell’Ottocento, e il loro ruolo nella formazione di una poesia slovena propriamente romantica. Francesco Benozzo e Marco Veglia concludono il volume con due contributi sulla ricezione e l’influenza dei poeti inglesi Wordsworth e Shelley in Italia. Fu Ceccardo Roccatagliata Ceccardi a condividere con Wordsworth sia un linguaggio poetico modulato sulla voce della natura, sia una scarsa fortuna critica. Fu invece l’anarchico Shelley a rappresentare un esempio per Lorenzo Viani a livello poetico, ma anche e soprattutto politico.
Il volume fa emergere un quadro composito di linguaggi carichi di valenze metaforiche che evocano identità singole e, al tempo stesso, articolano un messaggio politico rivolto alla comunità; che formulano relazioni di potere, innesco potenziale di mutamenti sociali, il cui effetto destabilizzante continua a far presa anche sul lettore moderno.

Questo numero de La Questione Romantica è stato curato da Serena Baiesi.