«Je suis mon ouvrage»
Olympe de Gourges

Franca Zanelli Quarantini

Un mese dopo l’esecuzione di Olympe de Gouges, avvenuta il 3 novembre 1793 in Place de la Concorde, il giudice di pace Nicolas Thilly, recatosi nell’abitazione della defunta per stendere l’inventario della carte giacenti, si trovò di fronte a un’imponente quantità di manoscritti, varia corrispondenza, pamphlets, volumi a stampa, il tutto raccolto in pacchi, scatole, involti di fortuna. Cominciò a schedare una serie di pamphlets (tra cui il Pronostic sur Maximilien Robespierre, Olympe Degouges

[sic] défenseur officieux de Louis Capet, il Cri de l’Innocence, le Lettres à la Reine, etc.), e rovistò tra le vecchie lettere, racchiuse in una carpetta di marocchino rosso; a fianco trovò un altro pacco di lettere e manoscritti  (con un Abrégé de la vie de l’auteur, il Problème à résoudre, dédié à Louis seize, la Grande éclipse du soleil jacobi[nis]te, il Testament d’Olympe de Gouges, etc.), poi un pacco di testi politici e teatrali, pubblicati in volume (tra cui il Dialogue entre la France et la vérité; la Lettre de Madame de Gouges, auteur de l’Esclavage des Noirs; l’Epître à Louis Seize, la Lettre aux littérateurs français, la Réponse à mes calomniateurs, etc.); ancora, legati insieme, dei testi a stampa, di natura politica (come il Discours de l’aveugle aux Français, il Cri du Sage, il Départ de M. Necker et de Mme de Gouges) e teatrale (Les Aristocrates et les démocrates), varie carpette con lettere e biglietti indirizzati a Olympe; avvolti in uno strofinaccio, scoprì alcuni esemplari del Mémoire de Mme de Gouges contre la Comédie-Française, una copia della pièce teatrale intitolata L’homme généreux, e in una borsa di tela rinvenne, tra l’altro, due volumi delle Œuvres de Madame de Gouges, insieme alla pièce teatrale Molière chez Ninon; custoditi in una piccola scatola, trovò poi vari passaporti intestati alla scrittrice con una ricevuta del Monte di Pietà e per finire registrò la presenza, insieme a qualche lettera d’amore, di molti manoscritti d’argomento politico e teatrale, racchiusi in una grande scatola di legno ornata di crine sul coperchio. Col contenuto di quest’ultimo reperto la cifra complessiva (e incompleta) dei testi inventariati supera di molto il centinaio.

Malgrado l’impersonalità dello stile, una saltuaria irritazione affiora dal verbale di Thilly, a disagio in quella casa disabitata e troppo piena: ad esempio, segnala per otto volte che i testi, sebbene impacchettati, sono raccolti «senza alcun ordine» («sans ordre ni suite») [DE GOUGES 1993a, II, pp. 43-46] – legittimando così l’opinione dei molti detrattori, secondo i quali Olympe era solo una confusionaria illetterata; evita inoltre di trascrivere il nome dell’autrice o lo fa solo quando è parte del titolo, forse per l’imbarazzo nel dover fronteggiare una produzione debordante e, quel che è peggio, femminile. Comunque sia, è grazie a quel verbale se il lettore d’oggi può immaginare com’era la sua stanza di lavoro quando Olympe ne uscì per avviarsi alle prigioni della Conciergerie: con pochi mobili e moltissimi scritti. Dalla varietà dei titoli e degli argomenti all’eteroclita disposizione dei testi, tutto favorisce una familiarità con l’autrice per ora soltanto epidermica, eppure già vitale, materica, quasi olfattiva, e in sintonia con l’animus più istintuale di Olympe che, lontana dallo studiato decoro degli hommes de lettres, amava esibire come un vanto la propria diversità scrivendo di sé: «…souvent la multitude de mes idées m’égare, et j’ai alors bien de peine à me retrouver […] je suis, dans mes écrits, l’élève de la nature; je dois être, comme elle, irrégulière, bizarre même; mais aussi toujours vraie, toujours simple» [DE GOUGES 1993a, I, p. 147]. Riconoscendosi sempre più intensamente in una scrittura che lei stessa con orgoglio definisce irregolare e imperfetta, questa donna dall’identità contrastata e inizialmente esitante, giorno dopo giorno si rafforza nell’affermazione della sua duplice natura – quella di «femme et auteur» –, opponendo una resistenza non comune al silenzio con cui da più parti si volle neutralizzarla.
Anche per questo motivo le sue pile di fogli ci impressionano: «J’ai tout prévu, je sais que ma mort est inévitable» [DE GOUGES 1993a, II, p. 236], si legge nel Testament scritto nel giugno 1793; come se, più ancora del corpo, il terrore della sparizione avesse investito l’opera – il corpus – da tenere insieme e salvare oltre la vita. Ravvolta su se stessa e legata con lo spago, l’anti-biblioteca di questa femme-auteur compendia egregiamente la solitudine di un percorso creativo vissuto all’insegna del coraggio e che fu rivalutato solo negli anni Settanta del secolo scorso, con la «riscoperta» da parte del movimento femminista della sua Déclaration des droits de la femme (1791). La pubblicazione degli scritti teatrali nel 1991, di quelli politici nel 1993, e prima ancora l’ottima biografia di Olivier Blanc nel 1989, ha messo in luce i molti volti di una personalità d’eccezione, o meglio ancora – per usare un termine di Kristeva – di un autentico «génie féminin» [KRISTEVA 1999-2003]: in cui l’identità e la scrittura, l’azione e l’invenzione si radicano nel profondo di un’esperienza biografica al femminile, concorrendo al progresso del pensiero collettivo e imponendosi alla nostra ricezione come un evento umano non ripetibile, una «singolarità incommensurabile».
Umanitario, didascalico e al tempo stesso autoreferenziale, il discorso di de Gouges si sposta di continuo dai temi d’interesse sociale e collettivo (è il livello progettuale e riformatore, libertario, moralistico e patriottico) al piano personale in cui lo je, riconoscendosi vittima dell’«injustice des méchants», si insedia di diritto nel cuore della scrittura. Lo si riscontra in primo luogo negli scritti politico-sociali, che Olympe indirizzò al Popolo, al Re, a Maria Antonietta, agli Stati Generali, a Robespierre e ad altri ancora, per enunciare la sua energica presa di coscienza al femminile: «Il est temps d’élever la voix», esordisce in un pamphlet dell’89, intitolato Le cri du Sage. Par une femme [DE GOUGES 1993a, I, p. 73]; veemente e propositiva ma ogni volta inascoltata, col tempo la scrittura di Olympe assume i toni oracolari delle Cassandre tragiche – «Je redoute mes prédictions, toutes se sont réalisées», scrive nel 1792 [Ivi, II, p. 108] – mentre la sua vocazione di «animal sans pareil […] ni homme ni femme» [Ivi, p. 169] si confonde sempre più con la voluttà di provocare e di esporsi per soccombere, rinascendo nell’opera. Nel 1793 redige Les Trois Urnes, ou le Salut de la Patrie, il pamphlet che le costerà la vita e che lei stessa commenta in questi termini: «Une femme monstre vient de montrer un courage peu commun». [Ivi, p. 21]; e aggiunge: «On veut me conduire à l’immortalité». Poi la condanna. Chiunque si sia occupato di lei ha dovuto ammettere che l’eccezionalità in de Gouges si nutre anche dei suoi molti difetti, tra cui campeggiano la scarsa cultura, il bisogno di esibirsi, l’aggressività oratoria, e un incontenibile desiderio di autoaffermazione come auteur: altrettante derivazioni esasperate di ciò che poteva dirsi per l’epoca una triplice sventura – perché Olympe era donna, roturière, bâtarde, e ambiva al riconoscimento assoluto. Come nei pamphlets, così nel suo teatro quei «difetti» ritornano, facendosi il punto di partenza di un’estetica che, se non giunge a piena maturazione, afferma la necessità di sperimentare con audacia forme nuove: ciò che, specie in teatro, può facilmente venire scambiato per un’assenza di forma. Di qui il disprezzo dell’onnipotente Comédie-Française, l’irritazione di Beaumarchais, le stroncature di gran parte della critica e le tante difficoltà incontrate da Olympe nel mettere in scena il suo teatro: un teatro senza origini, bâtard come lei, insofferente alla norma, disposto al rischio.
Per cominciare dalle forme esteriori della sua «teatralità» (da intendere, con Barthes, come «il teatro meno il testo»), tra gli effetti scenici più temerari sta senz’altro la messa in scena pensata per L’entrée de Doumouriez à Bruxelles, che il Théâtre de la République rappresentò solo per due serate nel gennaio 1793. Si tratta di una pièce repubblicana ispirata all’occupazione di Bruxelles da parte delle truppe francesi guidate da Doumouriez, vincitore a Jemappes e Valmy: vi sono previsti ben ventisei personaggi «o acteurs parlants», cui si aggiungono le masse dei soldati francesi e prussiani chiamati a contrappuntare tre intrecci paralleli (rispettivamente rivoluzionario, amoroso e burlesco) con una «action guerrière», ossia una vera e propria azione di guerra da compiere in scena. Questo teatro aperto, fatto di masse in movimento con accompagnamento musicale, se da un lato gareggia con le imponenti fêtes révolutionnaires in auge in quegli anni, dall’altro anticipa innegabilmente i drammi romantici – come Lorenzaccio o Cromwell – il cui portato innovativo è anche il frutto di un prodigalità visiva ai limiti dell’irrappresentabile. Ingegnoso e anticipatorio – nel Mirabeau aux Champs-Elysées (rappresentato una sola volta al Théâtre Favart nell’aprile 1791, dodici giorni dopo la morte dell’oratore) – è poi l’espediente con cui l’autrice crea nel pubblico l’illusione di trovarsi in un Empireo di eletti, dove le anime di Voltaire, Rousseau e Montesquieu discettano in attesa del nuovo arrivato, appunto Mirabeau: nel primo atto, con un effetto di dissolvenza incrociata, «une espèce de nuage, imitant une vapeur […] se dissipe insensiblement» [DE GOUGES 1993b, p. 249], svelando al pubblico, tra tenui musiche e vaghi lamenti, un mondo di ombre. Come tacere, infine, tra gli attori previsti per Les Aristocrates et les Démocrates, ou les Curieux au Champ de Mars (1789, mai messo in scena), la coppia formata dal «Père Ambroise, aveugle et Jacquot, son chien, tous deux aristocrates» [Ivi, p. 198], perseguitati entrambi dai rivoluzionari, in fuga per Parigi e digiuni da due giorni? Dalla fantasmagoria scenografica alla trouvaille amena, l’esuberanza dell’immaginazione vivifica un’azione drammatica ideata au jour le jour, seguendo il corso degli eventi rivoluzionari, perciò redatta (anzi dettata) di getto, e ultimata spesso in poche ore: ciò che le valse l’accusa di sfruttare intensivamente i suoi segretari, indicati da più parti come i veri autori dei suoi testi. Un’accusa ingiusta, che si accompagnò a giudizi spesso feroci: il Doumouriez, per esempio, viene definito da Guénégaud, sul «Journal Français», «au-dessous d’un examen bien approfondi» [DE GOUGES 1991, I, p. 135];[1] viceversa, Louis-Sébastien Mercier, che apprezzava Olympe, definì la pièce «à la Shakespeare» e la segnalò come «une nouvelle preuve que [l’auteur] porte au tyran».
Alle teorizzazioni di Mercier si adegua, del resto, il dramma alla maniera di de Gouges: volto a finalità moralizzatrici, come era d’uso all’epoca, senza per questo tradire le aspettative del pubblico, che nel Dramma cercava non solo «un tableau intéressant […] moral […] et riant», ma anche «un tableau du siècle», in cui «les caractères, les vertus, les vices seront essentiellement ceux du jour & du pays» [MERCIER  1970, p. 105]. Ed è soprattutto nella scelta degli argomenti, spesso di scottante attualità, che emerge l’apporto innovativo dell’autrice: con L’Esclavage des Nègres (1789), La Nécessité du Divorce (1791), Le Couvent ou les Vœux forcés (1791), essa riafferma un impegno riformista che fa dell’intreccio un pretesto per combattere ogni genere di soggezione, dalla schiavitù dei neri nelle colonie americane a quella della donna mal maritata o della ragazza costretta suo malgrado a prendere i voti. A questa volontà di mobilitazione collettiva, de Gouges aggiunge inoltre un proposito in più, che la riguarda da vicinoe che ora osserveremo. Cominiciamo con  L’Esclavage des Nègres, la sua prima pièce giunta fino a noi: il dramma si muove su due intrecci paralleli, quello dei due schiavi negri Zamor e Mirza, e quello di Sophie e Valère, la coppia di francesi scampati al naufragio grazie all’intervento di Zamor; questi però, avendo ucciso il suo padrone per difendere Mirza, rischia la vita. Il buon governatore, che l’ha allevato, s’impietosisce quando Sophie intercede in suo favore, e nell’udire il triste passato della fanciulla («Nous avons tout perdu. Privée d’une mère et de ma fortune, abandonnée d’un père depuis l’âge de cinq ans […]») capisce di avere davanti a sé la propria figlia, abbandonata in gioventù. La libertà per i due schiavi e il riconoscimento di Sophie coronano il finale di questa pièce ingenua nel taglio e nei dialoghi, ma in cui per la prima volta, attraverso il tema della bâtardise e del riconoscimento finale, Olympe velatamente si autorappresenta. Ha scritto Blanc che «dans presque toutes ses pièces, au reste, elle se mettra discrètement en scène, ou bien sous les traits d’une jeune femme à la naissance illégitime ou alors, sous ceux, pudiques et réservés, d’une courtisane repentie» [Blanc 1989, p. 44]. Pur rilevando un tratto centrale del teatro di Olympe, Blanc trascura di esaminanrne gli sviluppi più significativi, ovvero la tecnica dell’«intrusione d’autore», che conduce Olympe de Gouges ad abbandonare a poco a poco le strategie di autocopertura (gli escamotages legati alla maschera e al doppio) per intervenire direttamente sulla scena, in prima persona.
Già negli anni di Zamor et Mirza, il tema della bâtardise percorre il romanzo autobiografico Mémoires de Madame de Valmont, pubblicato nel 1788 e in cui, schermandosi dietro il nome dell’eroina, l’autrice parla della condizione d’inferiorità legata a una nascita illegittima, che condanna la donna a un «éternel silence». La sua prise de parole – superfluo rilevarlo – trova origine qui. Convertendosi a trentasei anni da femme galante a drammaturga e romanziera, nella sua battaglia per i diritti della donna de Gouges difende anche il diritto alla «pubblicazione», da intendere alla lettera: attraverso i propri scritti resi pubblici (Olympe si rovinò per finanziarne la stampa), è la sua condizione d’illegittima e di scrittrice che reclama il riscatto. Non agli occhi di pochi, ma dell’intero «genre humain» [DE GOUGES 1986, p. 217].

Quando la posta è alta – in questo caso, il riconoscimento universale – le strategie vi si conformano e ad ogni pièce de Gouges osa di più: è quanto accade, in primo luogo, nelle sue préfaces d’accompagnamento ove, come scrive Thiele-Knobloch, l’autrice traccia «la génèse et la réception immédiate de ses œuvres, parfois avec une honnêteté autodestructrice, un désespoir évident, parfois avec une placidité pétillante d’esprit voire une ironie charmante» [DE GOUGES 1991, I, p. 11]. In parallelo a questo discorso introduttivo, dove lo je è centrale, si precisa nella pièce una volontà di sperimentazione che non esita a violare con eleganza spericolata le più salde convenzioni teatrali. Si prenda il Mariage Inattendu de Chérubin (1784, pubblicato nel 1786), una riscrittura del Mariage de Figaro che fece gridare ingiustamente al plagio Beaumarchais,[2] e in cui, una volta di più, riemerge nella figura di Fanchette il tema della figlia naturale. Nel secondo atto (scena XXV), l’azione si sposta dal salotto allo studio di un notaio, dove al presunto padre di Fanchette, il rustico ortolano Antonio, è chiesto di firmare il contratto di matrimonio della figlia; l’ignoranza del personaggio, che è analfabeta, induce Figaro, per associazione d’idee, ad accennare all’autrice – incolta come Antonio, agli occhi di molti; ecco il testo:

ANTONIO– Est-ce que vous ignorez que je ne savons ni lire ni écrire?

FIGARO – Ce n’est pas un grand tort pour un faiseur de salades: mais pour un faiseur de comédies, c’est un grand malheur.

LE COMTE– Un auteur qui ne sait ni lire ni écrire! Où avez-vous trouvé cela? FIGARO – Il faut vous dire d’abord que cet auteur est une femme. Elle m’a fait l’honneur de me jouer deux ou trois fois. On ne peut pas dire que ce qu’elle fait soit absolument mauvais, et l’on doit lui savoir gré de ses faibles productions, puisque c’est avec un esprit naturel qu’elle compose.

BRID’OISON – Comment peut-elle faire, n’ayant pas les moyens de déposer ses idées sur le papier?

FIGARO – Elle vous apprendrait encore beaucoup de choses que vous ignorez, M. le juge. Elle fait comme les grands seigneurs, elle se sert de secrétaires.

LE COMTE – N’a-t-elle pas aussi un teinturier?

FIGARO– Non, et c’est en quoi elle diffère des grands seigneurs. Elle demande souvent des avis et finit toujours par s’en tenir à ses idées. C’est dont on peut se convaincre en lisant ses ouvrages.

LE COMTE– Laissons là cette conversation, M. Figaro, quoiqu’elle vous intéresse infiniment…[DE GOUGES 1993b, p. 60]

Con questo intervento, alquanto straordinario, il testo contravviene a una costante drammaturgica che fa del discorso teatrale un «discours sans sujet»:[3] ove l’autore, redigendo la sua pièce, si separa da sé, parla attraverso la voce dei personaggi dialoganti e disseminandosi si rende introvabile. Non a caso Schlegel, volendo definire per sommi capi il genere drammatico lo indicherà come «quello in cui […] l’autore non parla in suo proprio nome» [SCHLEGEL 1977, p. 21]; e così scrive nel Novecento Peter Szondi: «Il drammaturgo è assente dal dramma. Egli non parla. […] in nessun caso [le parole dette nel dramma] devono essere concepite come emananti direttamente dall’autore» [Szondi 1962, p. 10]. Viceversa, in questa scena Figaro gioca con la sua natura di «personaggio» sottomesso al volere di un Auteur di cui chiarisce a sufficienza identità e intenti: si tratta di una donna, che ama scrivere «avec un esprit naturel», che si serve di segretari per correggere il proprio stile incerto, ma non ama assoldare teinturiers (o nègres) e crede unicamente nelle proprie idee; con tutto ciò, Figaro ne ammira la produzione e non lo nasconde.
Dunque, infranta con molta autoironia la norma dell’invisibile onnipresenza, qui l’autrice si compiace del proprio anomalo statuto di auteur povera di cultura ma ricca d’idee e promuove un’estetica del naturel nel cui nome è lecita ogni libertà; non ultima – avendo eletto Figaro suo difensore e sua propria creatura –, quella di rivaleggiare tra le righe con Beaumarchais. L’anno successivo, ne L’Homme généreux (1785, pubblicato nel 1786 e mai rappresentato), de Gouges utilizza gran parte della préface per ribadire la sua diversità e stendere un manifesto di poetica, contro i suoi detrattori:

On m’observera sans doute que quand on se connaît bien, il faut aussi savoir se corriger, et renoncer à l’art d’écrire, lorsqu’on n’est doué que d’une imagination naturelle, qui ne peut plaire aux prétendus connaisseurs, aux pédants et aux plagiaires. Je dirai à cette espèce d’hommes que tout est sorti du sein de l’ignorance, et que le seul génie de la nature a porté les arts et les talents au point où il sont parvenus […] le hasard m’a privé de lumière dans le siècle plus éclairé. Je sais donc peu de choses; je n’ai que quelques notions qui ne se sont pas confondus dans ma mémoire, et un grand usage de la scène, sans connaître nos auteurs. […] Le plus grand reproche que l’on peut me faire, est de ne savoir pas l’art d’écrire avec l’élégance qu’on exige aujourd’hui. Elevée dans un pays dont on parle fort mal sa langue, et ne l’ayant jamais apprise par principes, il est étonnant que ma diction ne soit pas encore plus défectueuse. Si je croyais cependant qu’en adoptant la manière des autres, je pusse gâter le naturel qui m’inspire des sujets neufs, je renoncerais à ce qui pourrait m’être indispensable. Peut-être me pardonnera-t-on, en faveur de la nouveauté, ces fautes de style, ces phrases plus sensibles qu’élégantes, et enfin tout ce qui respire la vérité [DE GOUGES 1993b, II, pp. 40-41].

Il rifiuto delle convenzioni è qui assoluto: malgrado questo esitiamo a sottoscrivere quanto scrive Thiele-Kobloch a commento della Préface: «[de Gouges] se révèle parfaitement prête à participer au débat sur le théâtre moderne. Bien plus que l’imitation des maîtres, ce sont les nouveautés dramatiques qui l’intéressent» [Ivi, p.12]. Infatti, quando difende il proprio istinto scenico o la scrittura del naturel (prodotti entrambi dell’ignoranza che per destino spetta alla donna) l’autrice non mostra alcun interesse verso un diverso avvenire del teatro, rispetto al quale porsi in veste di anticipatrice; questo perché il suo operato risulta impensabile fuori dalla cornice del tempo rivoluzionario, dove il coup de théâtre grandioso o macabro si svolgeva quotidianamente sulle piazze, mentre stentavano ad affermarsi, nel chiuso dei teatri, una volontà d’innovazione e una progettualità in linea col momento storico. Malgrado il decreto del gennaio 1791 – che pose fine al monopolio della Comédie-Française e soppresse, ma solo per quattro anni, la censura –, la metà delle pièces messe in scena in quei decenni appartenevano ancora al repertorio classico, mentre il genere delle pastorales, ben poco sovversivo, incontrava un particolare favore del pubblico [GENGEMBRE 1999, pp. 84-87]; quanto al teatro propriamente rivoluzionario, si trattò, almeno in massima parte, di un camouflage di vecchi moduli. Come scrive Truchet: «des écrivains imbus de la tradition littéraire de l’Ancien Régime, et souvent plus opportunistes que convaincus, s’efforcèrent de s’adapter aux exigences du public et des maîtres de l’heure, quitte à remanier leurs pièces autant de fois que l’évolution de la situation l’imposerait» [TRUCHET 1972, p. LII]. Ed è precisamente contro l’ipocrisia di quel teatro maschile di ascendenza colta, ma ormai sterile nelle idee, che de Gouges scrive. Essa occupa uno spazio a sé nell’evoluzione del teatro francese a cavallo tra Sette e Ottocento, inaugurando un potenziale teatro romantico al femminile, che tuttavia non fiorirà; infatti, l’esemplarità degli eroi maschili e la marginalità delle autrici, che opereranno spesso per semplice emulazione, faranno del teatro romantico, malgrado la sua dichiarata novità, un teatro di competenza dell’homme de lettres. Viceversa de Gouges – in quanto rivoluzionaria – usa la scena per parlare di libertà alle coscienze; ma in quanto donna, scandisce all’interno dello spazio scenico le tappe che la conducono – attraverso una proiezione di sé ogni volta più autorevole – ad autolegittimarsi.
Tale intento è visibile anche nel ricordato Homme généreux, ove mediante una contaminazione fra generi de Gouges partecipa all’azione per il tramite di un personaggio già noto. Nel monologo del Conte de Saint-Clair, in apertura, viene infatti nominata una «Madame de Valmont» già protagonista degli omonimi Mémoires e dietro la quale è perciò riconoscibile l’autrice; inutile aggiungere che nella pièce quel personaggio ha un ruolo centrale, contribuendo a sciogliere i nodi dell’intreccio. Diversamente dal discorso attribuito a Figaro, qui l’autrice non ironizza più sui suoi difetti e si fa paladina delle donne secondo una progressione di discorso che dal collettivo – «On nous a exclues de tout pouvoir, de tout savoir; on ne s’est pas encore avisé de nous ôter celui d’écrire» – si chiude sul personale – «Aujourd’hui cette noble occupation est tournée en ridicule, et l’on va même jusqu’à nous refuser le mérite de nos faibles productions» [DE GOUGES 1993a, II, pp. 59-60]. Tanto risentimento sfuma presto in un’attitudine benevolente e grave, come conviene ormai a una caritatevole dama (del resto, la vicenda era tratta da fatto reale – un padre di famiglia messo in prigione per debiti – e de Gouges vi aveva avuto una parte di rilievo).. Due anni dopo, ne Le Siècle des grands hommes, ou Molière chez Ninon (1788, mai messo in scena), si afferma in modo ancor più netto il tema della donna superiore, con un’irresistibile Ninon de Lenclos che idealmente porta in sé anche l’identità dell’autrice. Cortigiana virtuosa, amica di Scarron, di Saint-Evrémond, e soprattutto di Molière, cui dà utili consigli, suggerendogli perfino l’impianto del Misanthrope, Ninon si destreggia altresì coi tanti uomini che vorrebbero amarla. Al conte di Fiesque, che segretamente le fa battere il cuore, rinuncia senza civetteria – «j’ai passé de quelques années la quarantaine» [DE GOUGES 1993b, p. 176] – chiedendogli con semplicità: «Soyez mon ami et ne parlons plus d’amour» [Ivi, p. 187].
Tuttavia, uno dei tratti più originali della pièce sta nella corrente di amicizia che si instaura, grazie a Ninon, tra i personaggi femminili, dove si inaugura un procedimento che tornerà tra l’altro ne La nécéssité du divorce (1791, mai messo in scena), in cui la moglie tradita, a tu per tu con la rivale, finisce per lodarne la sincerità dei sentimenti e farne un’alleata. Anche ne Le Siècle des grands hommes… l’autrice dà corso a un patto di solidarietà tra donne che si compie attraverso il dialogo a due, intimo e intenso. Nel quarto atto, l’incontro tra Ninon e l’impetuosa Olympe – la fanciulla dagli amori contrastati, fuggita di casa per seguire la troupe di Molière – mette una commossa Ninon davanti al proprio «doppio» giovanile e appassionato (il cui nome, Olympe, certo non è casuale). Superando il divario tra generazioni e le differenze di classe, sulla scena l’autrice dà voce e vita a un desiderio di reciproco aiuto e di concordia tra donne che anima anche i suoi pamphlets, dove l’esigenza di una soldarietà tra donne appare non più dilazionabile: «Mes concitoyennes, ne serait-il pas temps qu’il se fît aussi parmi nous une révolution? Les femmes seront-elles toujours isolées les unes des autres, et ne feront-elles jamais corps avec la société, que pour médire de leur sexe, et faire pitié à l’autre?» [DE GOUGES1993a, t. II, p. 131].
Rispetto a quella realtà deludente, e a condizione di sfumare i toni, la scena teatrale si offre a de Gouges come una magica piattaforma ove esaudire sogni altrimenti impossibili. Ciò vale per l’incontro tra Ninon e la regina Cristina di Svezia (atto IV, scene XIV e XV), ove la tecnica del vis-à-vis femminile raggiunge il climax, unendo due donne diversamente superiori e la cui vera ricchezza sta nell’«estime de soi-même», nel sentirsi «au-dessus des préjugés», nel circondarsi di persone «du plus grand mérite, du plus grand génie, du premier rang» [DE GOUGES 1993b, pp. 179-180]. Attraverso il loro reciproco confronto l’autrice dà espressione simbolica a un duplice movimento di emancipazione sociale, poiché Ninon si eleva e si «nobilita» attraverso lo sguardo ammirato di Cristina, la quale dal canto suo ha compiuto un percorso di affrancamento dal potere attraverso la rinuncia alla regalità. Orchestrando il rispecchiamento per «analogia» – termine che ricorre più volte nella scena – delle due figure femminili, l’autrice soddisfa al contempo il suo bisogno di riconoscimento e la sua sete di giustizia sociale.
Inoltre, l’esempio di Cristina, che ha ritrovato se stessa abdicando alla corona per divenire «maîtresse de mon sort», non può mancare di proiettarsi sulla crisi della monarchia già in atto in Francia, indicando un’alternativa possibile: è quanto traspare da questo scambio di battute: «Je suis descendue du trône avec la même tranquillité que j’y étais montée», dice Cristina, e una pensosa Ninon le risponde: «Mais quel est celui qui aura le courage de vous imiter?» [Ivi, p. 179]. Del resto, l’abdicazione di Luigi XVI, che più volte l’autrice si augura, viene infine proposta senza indugio al Re in uno pamphlet del 1791 dove si legge: «Si vous nommez un Régent, qu’il soit digne de l’estime publique, et alors vous serez conséquent dans vos principes» [DE GOUGES 1993a, t. I, p. 190]. In quelle stesse pagine, redatte dopo la fuga di Varennes, l’autrice comunica inoltre a Luigi XVI la necessità di una riforma radicale del suo entourage: responsabile dello sfacelo monarchico, la «Cour gangrenée» degli aristocratici dovrà a suo avviso venir sostituita da «des citoyens et citoyennes connus par leur patriotisme» [Ivi, p. 189].
Fatto di solenni quanto irrealizzabili «entrate» e «uscite» dalla scena regale, questo progetto rigeneratore anticipa di un anno soltanto la pièce in cui Olympe de Gouges fa in prima persona il suo ingresso alle Tuileries: annunciata come «une bonne patriote», l’autrice chiede di parlare a Maria Antonietta. Di questa pièce, La France sauvée ou le Tyran détrôné (1792) sono giunti soltanto il primo atto e quattro scene del secondo: ritrovata tra le carte del processo di Olympe, l’intreccio della pièce prevede quattro donne – Olympe, la principessa di Lamballe, la principessa Elizabeth e Maria Anonietta – più tardi unite da un’identica morte.
Contrariamente all’incontro franco e diretto che ha luogo tra Ninon e l’illuminata Cristina, l’attesa presa di coscienza che dovrebbe scaturire dal confronto tra l’eccezionalità di Olympe – philosophe e popolana a un tempo – e quella della regina, al vertice della piramide sociale, non ha luogo per l’azione di disturbo esercitata dalle dame di compagnia della sovrana. Quest’ultima, nascosta nell’attiguo cabinet, presta comunque ascolto alle parole che Olympe scambia con la principessa di Lamballe, ma la sincerità del linguaggio dell’autrice non è destinata a germogliare nel suo animo, ormai incapace di corrispondere ai bisogni del popolo e teso soltanto a una seduzione che fa degli altri strumenti del proprio privilegio. Olympe, dal canto suo, se attribuisce alla corte la maggior colpa del mancato contatto tra i sovrani e il popolo, tuttavia non assolve i due regnanti, perché espressione di un potere corrotto; rivolgendosi alla Lamballe e per suo tramite a Maria Antonietta, così essa esclama in scena:

Je fais tout pour ma patrie, j’y expose ma vie, je le sais; mais qu’il est beau de la perdre pour une si belle cause! Si vous ou moi, nous périssons par la main des assassins, la postérité approuvera, ou vengera notre mort. Voilà la seule différence que je trouve entre vous et moi. Puisse le sort qui nous menace toutes deux ne frapper que moi seule… [DE GOUGES 1993b, p. 337].

Condannata a rimanere senza risposta nella realtà dell’epoca, oggi la sua scrittura mantiene inalterati il portato profetico e la straordinaria sonorità – ignara delle strategie retoriche persuasive e pronta a offrirsi in un grido che, facendosi testo, diventa insieme una messa in guardia e un sacrificio totale di sé. Con questo abbandoniamo il teatro rivoluzionario per scendere in strada e compiere con il giudice Thilly il percorso che lo conduce nella dimora dell’autrice, dove cumuli di fogli legati con lo spago vigilano su un’assenza che è solo fisica e testimoniano di un’esistenza votata fino all’ultimo alla libertà di parola: «La libre communication des pensées et des opinions» aveva scritto Olympe, «est un des droits les plus précieux de la femme» [DE GOUGES 1993a, I, p. 208].

Bibliografia

BARTHES, R. (1966): «Il teatro di Baudelaire», in Saggi critici, Torino, Einaudi.
BLANC, O. (1989): Olympe de Gouges. Une femme de libertés, Paris, Syros.
DE GOUGES, O. (1986): Œuvres, présentées par B. Groult, Paris, Mercure de France.
–––– (1991): Théâtre politique, préface de G. Thiele-Knobloch, Paris, côté-femmes, 2 voll.
–––– (1993a): Écrits politiques, préface d’O. Blanc, Paris, côté-femmes, 2 voll.
–––– (1993b): Théâtre, introduction, notices et tableaux de référence par F.-M. Castan, Montauban, Cocagne, vol. I.
GINGEMBRE, G. (1999) : Le théâtre français au 19e siècle, Paris, Colin.
KRISTEVA, J. (1999-2002): Le génie féminin. La vie, La folie, les mots. Hannah Arendt, Melanie Klein, Colette, Paris, Fayard, 3 voll.
MERCIER, L.-S. (1970): Du Théâtre ou nouvel essai sur l’Art Dramatique, Genève, Slatkine.
SCHLEGEL, A.W. (1977): Corso di letteratura drammatica, Genova, Il Melangolo.
SZONDI, P. (1962): Teoria del dramma moderno. 1880-1950, Torino, Einaudi. Théâtre du XVIIIe siècle (1972), textes, choisis, établis, présentés et annotés pas J. Truchet, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», t. I-II.
UBERSFELD, A. (1996) : Lire le théâtre I, Paris, Belin.[1] Dal canto suo, l’autrice così rispondeva a Guénégaud: «Il verra que j’ai su faire un plan, un dialogue, une intrigue, concevoir une action dramatique, la soutenir avec un comique original; et comme le dit Mercier et autres que cette pièce, quoique faite à la Shakespeare, genre que les Français n’ont pas encore adopté, quoiqu’il soit plus près de la nature, aurait pris trois mois à un auteur consommé, quand je n’y ai mis que quatre jours» [DE GOUGES, 1991, I, pp. 138-139 .]. [
2] Sui turbolenti rapporti tra Beaumarchais e de Gouges, si veda la Préface di quest’ultima al Philosophe Corrigé. Quanto al Mariage inattendu, esso venne elogiato da La Harpe sul «Mercure de France’ del 4 marzo 1786, che lo definisce «ni parodie, ni critique de celle de Beaumarchais […] Il y a certainement du talent dans cette comédie dont les détails annoncent de l’esprit et de l’imagination…» Quanto alla impressionante velocità con cui de Gouges portava a termine le sue pièces (appena «vingt-quatre heures» per il Mariage inattendu), questo il commento di La Harpe: «On est étonné sourtout lorsqu’on lit dans la Préface de cet ouvrage: “Je le présente aujourd’hui a public rempli de fautes, telle qu’elle doit être une production faite en vingt-quatre heures, à laquelle je n’ai rien changé!” […] Nous ignorons ce qui surprendra le plus: ou tant de facilité ou tant de modestie».[BLANC, 1989, p.53] [3] «Le je biographique est occulté dans le discours théâtral. […] Dans la mesure où le discours théâtral est discours d’un sujet scripteur, il est discours d’un sujet qui se nie en tant que tel, qui s’affirme comme parlant la voix d’un autre, de plusieurs autres, comme parlant sans être sujet: le discours théâtral est discours sans sujet» [UBERSFELD 1996, p. 197].