La Questione Romantica > Musica/Letteratura

Federica Troisi

Chi trova che io non conoscevo
Shakespeare quando scrissi il Macbeth

[…] Oh, in questo hanno un gran
torto! […] E’ un poeta di mia
predilezione, che ho avuto fra le mani
dalla mia prima gioventù e che leggo e
rileggo continuamente.1

1. Nota preliminare

 Le celebrazioni per il primo centenario della morte di Giuseppe Verdi hanno offerto l’occasione per una attenta lettura filologica della sua produzione e per approfondire la funzione delle fonti letterarie europee sull’itinerario artistico del grande compositore. Se il primo compito è di stretta pertinenza del musicista, il secondo coinvolge anche il letterato. Come è noto, il giovane compositore esordì attingendo dalla grande storia, dal mito e dalla Bibbia (Oberto, Attila, Nabuccodonosor, I Lombardi alla prima crociata); successivamente si rivolse ai classici del romanticismo europeo (basti pensare a Dumas, Hugo, Byron) o ad autori di universale grandezza come Schiller e Shakespeare. Questi ultimi, in particolare, prediletti da Verdi, furono non a caso le fonti della maggior parte delle sue opere più note. Certamente tale predilezione era favorita dalla cultura del tempo: idealismo etico e mondo delle passioni, rappresentati l’uno da Schiller, l’altro da Shakespeare, costituirono un topos ricorrente nella critica romantica. Tuttavia Verdi non era artista da lasciarsi imporre la materia dei propri drammi semplicemente dalla moda imperante e dal gusto del tempo.
Se tanto di frequente (per un totale di sette opere, quattro dall’autore tedesco e tre dall’inglese) fu attratto dai due drammaturghi, non è insensato pensare che dovesse avvertire in essi caratteri congeniali alla propria natura.
Tuttavia la frequenza con cui nell’epistolario si rivolge ai due autori è, caso molto strano, inversamente proporzionale al numero delle opere rispettivamente suggerite. Infatti la sintonia con Schiller, pur fondata sull’ispirazione di ben noti melodrammi (Giovanna d’Arco, Luisa Miller, I masnadieri, Don Carlo) ma legata a valori etici – quali la ragion di stato, il senso dell’onore e del dovere – risulta meno esplicita rispetto a quella dirompente stabilita con Shakespeare fin dalla giovinezza e coltivata per tutta la vita.
Specchio delle passioni e di tutte le umane contraddizioni, il drammaturgo di Stratford diventa, in realtà, il simbolo dell’età romantica e, come tale, la dominante della dialettica musicale verdiana.
Non a caso il melodramma, nato fra il XVI e il XVII secolo con Monteverdi e Metastasio, raggiunse il suo massimo splendore proprio nell’Ottocento in coincidenza con la scoperta, la rivalutazione e la diffusione del teatro shakespeariano. Nella cultura asistematica del giovane Verdi, affidato alle cure prima del parroco di Busseto, poi a più esperti maestri milanesi, accanto alla musica ebbe un posto di rilievo la letteratura europea. Tale esterofilia, costante fonte d’ispirazione fin dagli esordi con l’Oberto, fu giudicata poco adatta a un patriota, secondo il rilievo mosso da Giusti al giovane compositore. Come se fosse possibile ingabbiare la grande arte entro confini nazionali o schemi ideologici!
Fortunatamente Verdi non diede ascolto a tali miopi giudizi come dimostra la sua biblioteca ricca non solo di spartiti (da Palestrina fino ai contemporanei Berlioz, Wagner, Brahms) ma anche di opere classiche e moderne, italiane e straniere: dai mistici trecenteschi alle Memorie di Casanova, alla Filotea di San Francesco di Sales, al Piacere di D’Annunzio, da Platone a Pascal, a Schopenauer, da Balzac a Byron, a Schlegel, a Schiller, a Zola; ma anche i grandi tragici greci insieme a molte edizioni di Shakespeare in lingua originale e in traduzione. Altro che Verdi rozzo e incolto o, peggio, popolaresco e bandistico!
La verità dell’invenzione drammatica di Verdi non stava nell’imitazione «veristica» della realtà, come fu per Puccini, né corrispondeva alla verità astratta del mito, come avvenne per Wagner. In lui il «vero» s’incarnava nel groviglio delle passioni umane tradotte sulla scena nel linguaggio universale della musica. In questo difficile gioco, tipico del teatro, fra realtà e finzione, essere e apparire, va ricercata non solo la unicità del maestro di Busseto, ma anche la ragione del profondo legame con Shakespeare. «Inventare il Vero» è, appunto, la direttrice fondamentale della ricerca verdiana nel segno del drammaturgo di Stratford: il suo referente per tutta la vita. A lui si rivolge più volte, leggiamo nell’epistolario, per dare credibilità al proprio principle estetico con la confidenza e l’affetto di un figlio verso il padre:

Copiare il vero può essere buona cosa, ma Inventare il vero è meglio, molto meglio. Pare che vi sia contraddizione in queste tre parole: inventare il vero. Domandatelo al Papà. Può darsi che Egli, il Papà si sia trovato con qualche Falstaf, ma difficilmente avrà trovato uno scellerato così scellerato come Jago, e mai e poi mai degli angioli come Cordelia, Imogene, Desdemona […] eppure sono tanto veri» [p. 425]), la venerazione di un discepolo verso il maestro («Ah, Shakespeare! […] il gran maestro del cuore umano! Ma io non imparerò mai!» [SANTI 2001, p. 16]), la sensibilità del critico in largo anticipo sui tempi («Ah, il progresso; la scienza, il verismo! Verista fin che volete […] Shakespeare era verista ma non lo sapeva. Verista d’ispirazione, noi siano veristi per progetto, per calcolo [p. 257]).

Posto al di sopra dei pur amatissimi tragici greci, fin dalla giovinezza ne frequentò i testi con una passione che presto divenne desiderio di riappropriazione e ricreazione.

Sta nelle mie idee di musicare La tempesta — scriveva in un’altra lettera – come sta pure nella mie idee di fare lo stesso dei principali drammi del gran tragico [BOITANl 2000, p. 5].

È noto che Shakespeare signifcò per Verdi la scoperta di una nuova concezione drammaturgica incentrata sulla rappresentazione della condizione umana e delle sue problematiche; la conoscenza di un linguaggio teatrale libero da ogni regola accademica, la mescolanza dei generi, il valore della «parola scenica», lo scardinamento della forma «chiusa». In altri termini, il tragico inglese fu l’occasione, il correlativo oggettivo di tutta la vicenda artistica del maestro italiano ben al di là delle tre riscritture – Macbeth, Otello, Falstaff– e dei progetti per un Amleto, una Tempesta e un Re Lear. Quest’ultimo – il più verdiano dei drammi di Shakespeare – sarebbe stato musicato, leggiamo nell’epistolario, «in una maniera del tutto nuova, vasta, senza riguardo a convenienze di sorta» [p. 189]. II musicista italiano, in verità, non si scostava dalla moda del tempo (basti pensare a Rossini, Mercadante, Vanwesteraut) ma, a differenza dei suoi sodali, cercò di essere se stesso creando testi del tutto nuovi. Non a caso quelle di Verdi sono quasi le uniche riscritture shakespeariane di un interminabile elenco ad aver superato la prova del tempo.
Contro chi lo accusava, dopo il Macbeth di Parigi (1865), di non conoscere il drammaturgo inglese, si difese protestando con veemenza:

Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosco, che io non capisco e non sento Shakespeare (sic!) no per Dio, no. E’ un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente [p. 166].

A questo punto è chiaro che l’influenza dell’autore inglese va ben oltre le opere messe realmente in musica o lasciate allo stato di progetto. Possiamo intravedere, per esempio, l’insegnamento delle tragedie romane dietro Aida; il dolente, tenero amore patemo di Lear per Cordelia rivive in Rigoletto, delimita dallo stesso Verdi «il più gran dramma dei tempi moderni, creazione degna di Shakespeare» [p. 206]; l’assenza di un centro unico di azione drammatica in La forza del destino s’ispira al policentrico Troilus and Cressida, mentre Omar – un ambiguo personaggio della suddetta opera italiana – è a mezza strada fra Puck (Midsummer Night’s Dream) e Ariel (The Tempest). Per non parlare di tutta la drammaturgia del «Cigno di Avon», incentrata sullo studio antieroico dell’uomo, riconoscibile nei vari Rigoletti, Violette, Azucene, ossia nei «perdenti» quanto mitici personaggi del musicista italiano.
Verdi sa raccontarci mondi riconoscibili, che ci appartengono, senza ispirarsi a saghe nordiche come fece Wagner, ma attingendo ovunque in Europa, in particolare al drammaturgo di Stratford, pur restando sempre italianissimo. E’ una prerogativa della vera arte riuscire a esprimere passioni universali e far leva su un patrimonio umano collettivo di sentimenti ed emozioni. Verdi è come Shakespeare che resta il più inglese degli scrittori, pur guardando molto al di là dei propri confini nazionali per mettere in scena tutto il mondo fino allora conosciuto. II musicista italiano attinse i suoi caratteri in Europa, ma il debito è reciproco, perché molto gli deve la cultura europea, non solo musicale. Se così non fosse, annota Principe [2000, p. 35], non ascolteremmo in Simon Boccanegra premonizioni di Saint-Saens e di Schumann, rimandi di Čajkovskij nel Ballo in maschera, richiami inequivocabili di Mahler in Otello, Traviata e Aida rispettivamente nella Terza Sinfonia, nella Quinta, in Das Klagende Lied; inoltre Verdi suscitò le simpatie di Nietzsche che riteneva Otello superiore all’opera di Wagner [NIETZSCHE 1977, p. 432], la venerazione di Joyce (con il figlio Giorgio, si dilettava a cantare e suonare le più note arie verdiane [ELLMANN 1982, p. 460]); E.M. Forster s’ispirò a Otello per il libretto di Billy Budd, scritto per l’omonima opera di Britten. All’estetica verdiana si richiama il titolo Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, il recente saggio di Harold Bloom.
II rapporto fra Verdi e Shakespeare, pertanto, non fu né di sudditanza né di pedissequa imitazione, ma una sorta di affinità elettiva che consentì al compositore di sfidare il mondo musicale del suo tempo per riportare il melodramma italiano a livelli europei fino a orientarne il corso verso la contemporaneità (Stravinskij, Nono, Berio).

***

Questo è un dramma che non ha nulla
di comune con gli altri.2

2. Macbeth

Se le composizioni del primo Verdi dall’Oberto al Nabucco non si allontanano dal gusto operistico del tempo (spettacolarità, gioco delle masse, uso delle arie, dei recitativi e del finale «chiuso») il punto di rottura è proprio il Macbeth rappresentato alla Pergola di Firenze nel 1847 e soltanto due anni più tardi alla Scala di Milano. Una edizione «riformata» va in scena nel prestigioso Théâtre Lyrique di Parigi nel 1865.
La sua decima fatica («questo Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere», recita la dedica al «padre e benefattore e amico» Antonio Barezzi [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]), nasce sotto il segno dell’eccezionale. Nell’opera di Shakespeare (nota nella traduzione italiana di Carlo Rusconi del 1838), Verdi riconosce una «delle più grandi creazioni umane» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43] e, quindi, sollecita Francesco Maria Piave «di fare almeno una cosa fuori dal comune» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]. L’opera indicherà – assicura il librettista – nuove tendenze alla nostra musica e aprira nuove strade ai maestri presenti ed avvenire» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]. Del resto già nel primo accenno a Macbeth (in una lettera all’impresario fiorentino Lanari, del 17 maggio 1846), il maestro annota a proposito del soggetto: «Non è né politico, né religioso: è fantastico» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]. Per tradurre tale grandezza, Verdi fa del realismo il punto della sua drammaturgia musicale con una carica innovativa capace di audacie mai più superate. Anche i cantanti vengono chiamati a un ruolo inedito. Non solo voci, ma interpreti, attori; col gesto, la sensibilità e l’intelligenza musicale, con la consapevolezza di non essere semplici strumenti, ma uomini che cantano il dramma di altri uomini.
Da un lato riesce così a costruire, in contrasto con il gusto del tempo, un perfetto equilibrio fra parola e musica, la ben nota «parola scenica», dall’altro, dando spazio primario al «cattivo», fa propria la nouvelle vogue romantica.
La novità verdiana corrisponde a quella corrente che nella seconda metà dell’Ottocento si andava delineando come estetica del brutto, degli emarginati dei diseredati dal punto di vista morale e fisico: è il naturalismo di Zola, il verismo di Verga, o il realismo di Balzac.
Per il Macbeth in ottemperanza a tale nuovo dettato, Verdi scrisse [p. 162] che voleva una Lady «brutta e cattiva», che non «cantasse» in senso tradizionale, ma avesse «una voce aspra, soffocata, cupa», che «avesse del diabolico», richiesta, quest’ultima, impensabile pochi anni prima ai tempi di Rossini o anche di Bellini. Altrettanto vale per il protagonista maschile voluto soprattutto per l’intelligenza interpretativa, per la straordinaria efficacia del canto declamato nonché per la figura poco attraente.
Con il Macbeth prendono avvio anche altre novità:
1) la triade «amorosa» – tenore, soprano, baritono – viene sostituita dal baritono, soprano/contralto, basso;
2) gli «abbellimenti» vengono trasformati in «canto declamato»;
3) il plot, come azione teatrale, perde la sua primaria importanza a vantaggio dell’«azione interiore», dello studio psicologico dei personaggi (per qualcosa di simile nel teatro di prosa bisognerà attendere Pirandello);
4) l’assenza dell’intreccio amoroso va a favore del confronto straziato, ma lucidissimo, del protagonista con la propria coscienza dal momento dell’esaltazione illusoria a quello della certezza tragica della disfatta, annunziato dalle streghe. Incarnazione del Male e, quindi, centro nodale del dramma, esse rappresentano «un personaggio». E’ superfluo ricordare che Verdi, con quest’ultimo punto, facendo propria la lezione di Schlegel, si oppose alla maggioranza dei letterati italiani del suo tempo (Niccolini, Maffei, Piave, Giusti) che davano del testo shakespeariano un’interpretazione parziale e mistificatrice, gravemente inficiata da pregiudizi classicistici (assenza delle unità aristoteliche) e religiose (dramma squisitamente morale e della fatalità, incarnate dalle streghe addomesticate, però, in una visione mitologica, come le Parche o le Nome, nonché nella connotazione, ancor piu asettica del «fantastico», del «magico», del «meraviglioso»). Di qui l’attenzione maniacale per ogni aspetto del dramma, dalla recitazione, ai costumi, alla gestualità, perché tutto doveva concorrere alla valorizzazione della «parola scenica», determinata dalla essenzialità. È quanto apprendiamo dalle numerose lettere inviate al librettista Piave con ossessiva insistenza: «Ti raccomando i versi […] quanto più saranno brevi tanto più troverai effetto […] per concludere […] non trascurarmi questo Macbeth […] brevità e sublimità»; e ancora: «Abbia sempre in mente di dir poche parole […] poche parole […] ti ripeto poche parole […] stile conciso! Hai capito?», o al primo interprete di Macbeth, Felice Varesi: «Io non cesserò mai di raccomandarti di studiare bene la posizione e le parole: la musica viene da sé. Insomma, ho piacere che servi meglio il poeta del maestro» [p. 157].
L’estetica del brutto, dell’emarginato, iniziata con Macbeth, continua con Rigoletto (Venezia, La Fenice 1851), Il trovatore (Roma, Apollo 1853) e La traviata (Venezia, La Fenice 1853), opere che costituiscono la cosidetta «trilogia popolare» con le quali Verdi concluse «gli anni di galera», il periodo più duro di ricerca e di formazione artistica. Nella trilogia, infatti, i veri protagonisti non sono il Duca, Eleonora o Alfredo, vale a dire i personaggi di rango, bensì Rigoletto, Azucena e Violetta, ossia i personaggi inferiori e messi al bando da un lato per il loro ambiguo passato, dall’altro perché, tentando di riscattarsi con una passione vera, si oppongono all’ordine gerarchico.
Tutto ciò se indica la maturazione artistica di Verdi, la sua prima sfida mediata dal tragico inglese per conquistare la posizione egemonica di Meyerbeer (Robert le diable), l’espressione più alta e complessa della sua musica è raggiunta successivamente nel delineare ancora due fuorilegge shakespeariani di opposta natura, Jago e Falstaff, un villain e un vecchio briccone.

Jago è […] una parte dell’umanità: il brutto.3

3. Otello

II 19 novembre 1871, rincantucciato in un palco del teatro comunale di Bologna, Verdi assistette alla prima, trionfale rappresentazione in Italia del Lohengrin di Wagner. «Fredda la scena […] l’insieme è noioso» ma dall’orchestra escono «suoni bellissimi» [p. 42]: le parole di Verdi rivelano un artista in crisi. Sono anni, infatti, dedicati alla revisione dei suoi lontani successi (Rigoletto, La traviata, Simon Boccanegra, Don Carlo, etc.) spinto da una accanita ricerca di perfezione, mentre la critica, persino quella italiana, lo giudicava superato.

Bellini piace sempre. Mentre Verdi passerà. Non meravigliatevi parmensi dei miei sentimenti per Verdi. Ha talento, ma poca scuola, mentre nascerà un nuovo genio che porterà la musica su una strada diversa, più scientifica [BEVILACQUA 2000, p. 7].

Tali affermazioni di Maria Luigia, duchessa di Parma, bene interpretano il clima di aperta ostilità nei riguardi del maestro italiano considerate retaggio del passato, di un tempo in cui i tenori-divi, al culmine del successo, manipolavano le stesse arie e cabalette, ritenendosi i padroni del palcoscenico e della musica. Al melodramma italiano, con i suoi obsoleti slanci melodici, i critici preferivano la «melodia infinita» e il «dramma musicale» introdotti da Wagner.
L’ostilità della critica fu accolta da Verdi con un lungo silenzio. Dopo il successo internazionale di Aida, composta nel 1871 quando era ancora giovane, si ritirò a Sant’Agata a fare il contadino; deluso per la superficialità del mondo teatrale che pure lo aveva acclamato, smise di scrivere per sedici anni, tranne qualche eccezione (come la Messa da Requiem, 1874, in occasione della morte di Manzoni).
Era già ultrasettantenne quando, all’indomani della suddetta esperienza bolognese, decise di dedicarsi a Otello cedendo alle insistenze di Giulio Ricordi e Arrigo Boito.
Per tentare di ricondurre la lirica italiana a una prospettiva autenticamente teatrale, il riferimento più valido non poteva essere che Shakespeare, considerato, comunque, l’incarnazione del teatro europeo.
II sodalizio, rinsaldato per l’occasione, con il librettista Boito, se conferma la difficoltà dei rapporti che sempre intercorsero fra Verdi e i suoi collaboratori, fornisce anche il primo esernpio di fedeltà testuale, un’assoluta novità nella prassi teatrale italiana poco incline al rigore filologico.
Per la prima volta, infatti, Boito non s’ispirò ai pur numerosi libretti già esistenti sugli stessi argomenti, ma risalì ai testi shakespeariani in inglese o in traduzione in nome di una maggiore fedeltà alla poesia. Tuttavia Verdi, vigile ed esigente, leggiamo nell’epistolario, non si stancava di raccomandare al librettista di essere essenziale, sintetico, di seguire l’esempio dell’originale inglese; come era già avvenuto in forma più pesante con Piave per Macbeth, di suo pugno tagliava, cancellava, sostituiva interi versi ritenuti troppo prolissi rispetto al testo inglese e per non annoiare il pubblico. Nasce così, per esempio, l’«Esultate», una delle arie verdiane più famose.
I primi studi per Otello, iniziati durante i trionfi di Aida al Cairo (1871) e del Simon Boccanegra a Milano (1881), ebbero una lunga gestazione, come leggiamo nella lettera inviata da Verdi a Ricordi nel 1879. II lavoro sul libretto si protrasse, con fasi alterne e molte interruzioni, fino al 1886. In quegli stessi anni il dramma shakespeariano veniva più volte rappresentato nei teatri milanesi frequentati con spirito critico da Verdi e dai suoi cantanti.
La prima esecuzione di Otello andò in scena alia Scala di Milano il 5 febbraio 1887, preceduta da un’attesa e un battage pubblicitario senza precedenti; il trionfo in teatro cominciò fin dalla prima scena, quella della tempesta, (al primo leggio dei violoncelli scaligeri suonava il ventenne Arturo Toscanini) e continuò fino a notte fonda sotto le finestre dell’Hotel de Milan, dove la carrozza di Verdi fu tirata a braccia dalla folla entusiasta.
In relazione al tessuto musicale, puntualizza Francesco Degrada [1997a], Otello presenta una differenza profonda e sostanziale di tono tra libretto e musica che incrina la conclamata unità di concezione drammatica della quale avrebbe dovuto essere garante l’eccezionale apporto letterario e culturale (come era stato quello del Maffei per il Macbeth) di Arrigo Boito. Fra gli elementi di novità vanno sottolineati: l’insistenza del finale «aperto»; la presenza di forme tradizionali (cabalette, arie, concertati) rivisitate nel moderno in versione parodistica; una scrittura analitica, frantumata in unità discordanti che interferiscono fra loro, così come il linguaggio shakespeariano presenta sovrapposizione di tempi e spazi, elegia e volgarità, tragico e comico. La scissione dei tre protagonisti – Otello, Desdemona e in particolare Jago – dal proprio passato, dal proprio contesto storico-culturale è riscritta da Verdi in una forma musicale eccentrica, in quanto il fuoco della tensione morale risulta sghembo rispetto all’asse del dramma.
Il nodo, infatti, non è Otello, ma, per le ragioni di estetica verista in precedenza indicate, è Jago, il cattivo, il diabolico; «Jago», scrive Verdi,

è Shakespeare, è l’umanità; cioè una parte dell’umanità: il brutto […] Jago con la faccia di galantuomo! Mi par di vederlo questo prete! Cioè questo Jago con la faccia di uomo giusto! [DEGRADA 2000a, p. 85]

Verdi intuì bene la qualità mistificatrice del personaggio, la sua funzione di villain, di grande manovratore, di diabolico architetto. Come Macbeth, anche l’intreccio di Otello si sviluppa da una fabula inesistente, dalla trama fantastica di Jago. Come gli altri villain shakespeariani rivisitati da Verdi, egli è sin dall’inizio un personaggio isolato, in conflitto con gli altri; personificazione del Male secondo Coleridge, e così interpretato da Boito per l’opera di Verdi, dove, nell’atto II scena ii, egli si proclama demonio e recita un «Credo» infernale: «Credo in un Dio crude! che m’ha creato / Simile a sé […] / Sono scellerato / Perché son uomo, / E sento il fango originario in me».
A Jago Verdi dedicò particolari cure, tanto da pensare al suo nome come titofo dell’opera; nel lungo carteggio con il pittore napoletano Morelli, troviamo anche indicazioni precise per un suo ritratto più volte sollecitato all’artista napoletano:

Se io fossi attore o avessi da rappresentare Jago vorrei avere una figura piuttosto magra e lunga, labbra sottili, occhi piccoli, vicini al naso come le scimmie, la fronte alta che scappa indietro e la testa sviluppata di dietro […] Una figura come questa può ingannare tutti e fino a un certo punto anche sua moglie. Una figura piccola, maligna, mette tutti in sospetto e non inganna nessuno [p. 352].

Al pari di Tersite nel Troilus and Cressida di Shakespeare, il personaggio di Jago svolge una funzione eccentrica, cui va attribuita la forma sghemba della riscrittura musicale; ma è proprio tale anomalia a conferire al melodramma verdiano, al pari del testo inglese, uno stimolante significato problematico e una lucida connotazione critica: le motivazioni essenziali della sua attualità [DEGRADA 2000a, p. 174].

Col trionfo di Otello, Milano riconobbe in Verdi la grandezza del mito dopo le battaglie e le incomprensioni del passato. Dal suo canto, alle immediate richieste di nuove emozioni operistiche, il maestro opponeva un fermo diniego in ragione della veneranda età. Tuttavia tale dichiarazione,ripetuta con particolare e spesso eccessiva insistenza, faceva intendere ben altro. Qualcosa urgeva nell’animo del musicista consapevole di qualche tessera mancante nel mosaico della sua drammaturgia: di lì a pochi anni, l’ultimo tassello, lo spirito comico a lungo messo a tacere, ebbe la sua rivalsa.
A poco più di trent’anni, Shakespeare aveva inventato, inserendolo in alcuni drammi storici e una commedia, l’anti-Jago, l’incarnazione della vitalità: Falstaff.
A ottanta Verdi termina la camera operistica, dopo tante tragedie, con una «commedia lirica» dedicata proprio a Falstaff. Tramite ancora Shakespeare, il compositore italiano affronta la terza sfida e dà inizio alla modernità.

Va, va vecchio John… cammina
per la tua via, finchè tu puoi…
divertente tipo di briccone,
eternamente vero, sotto maschera
diversa in ogni tempo. 4

4. Falstaff

Non penso mai alla sua eta né quando Le parlo, né quando Le scrivo, né quando lavoro per Lei. La colpa è sua.
Lo so che l’Otello ha poco più di due anni e che mentre Le scrivo si fa intender come deve ai compaesani di Shakespeare […] s’è detto di Lei dopo l’Otello: «è impossibile finir meglio!» […] (ma) gli altri argomenti: età, forza, fatica mia, ecc. ecc. non valgono e non sono ostacoli ad un nuovo lavoro […] Lo scrivere un’opera comica non credo che la affaticherebbe.[…] Lei ha desiderato tutta la vita un bel tema d’opera comica, questo è un indizio che la vena dell’arte nobilmente gaia esiste virtualmente nel suo cervello, l’istinto è un buon consigliere. C’è un modo solo di finir meglio che con Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d’ilarità! C’è da far strabiliare! [CANESSA 1985, p. 16]

Questa lunga citazione dalla lettera di Boito, scritta nel 1889 per incoraggiare il Maestro a realizzare il suo disegno comico, anticipa lo stupore del pubblico milanese alla prima scaligera di Falstaff nel 1893, l’ultima impennata del mitico vegliardo.
Ma è proprio la sua veneranda età, diventata punto di forza e non già di debolezza, a offrire al maestro la chiave di lettura delle vicende umane vissute da protagonista per circa un secolo. Tale chiave non poteva essere che il linguaggio della parodia, il guizzo della beffa, l’ambiguità dell’umorismo, l’ironia della citazione, offerta da cinque testi Shakespeariani (quattro history plays e una commedia, The Merry Wives of Windsor).
Ad eccezione di Un giorno di regno, sofferto insuccesso giovanile, Falstaff fu l’unica opera comica di Verdi, i cui antecedenti, però, come leggiamo nella citata lettera di Boito, sono individuabili nella sottile ma costante vena comica presente in tutta la sua drammaturgia: basti pensare a Ernani, Don Carlo e, in particolare, Un ballo in maschera. Tuttavia, solo in Falstaff si diverte, come racconta esplicitamente nelle sue lettere: «Ho scritto per piacer mio e per conto mio»; e ancora «Io mi diverto a fame musica senza progetti di sorta e non so nemmeno se finirò […]. L’opera è completamente comica. Amen» [p. 375]. Ma quello di Verdi non è un riso liberatorio «alla» Rossini. Piuttosto è un sorriso, come ho già accennato, ombreggiato d’intensa malinconia.
Da ciò consegue l’inversione dell’ordine tradizionale fra le parti del dramma in musica per cui «la cornice diventa quadro», come egli scrive all’impresario Antonio Gallo [MULA 1999, p. 150]. In termini musicali ciò significa la sostituzione della rovente anima melodica (arie, cabalette, cavatine) fin allora manifestata con le complesse eleganze del contrappunto e della frammentazione conforme al nuovo codice ironico e parodistico.
Altrettanto avviene nell’apparato testuale, dove alla emarginazione dell’eroe corrisponde la centralità dei personaggi secondari.
Nel mondo alla rovescia di Falstaff, infatti, la saggezza non è più appannaggio dei vecchi, ma dei giovani, l’inventiva e prerogativa delle donne e non degli uomini, il quotidiano prevale sul sublime, il dinamismo della città borghese sulla staticità dell’aristocrazia, il linguaggio basso della commedia su quello alto della tragedia. Tutto ciò è tradotto in un complesso linguaggio musicale (incisi melodici, molteplicità di temi, timbri) che spiega e vivifica il testo costituendo il così detto «umorismo falstaffiano». Nel multiforme gioco degli elementi linguistici, la musica riesce a «dire una cosa e, insieme, il suo opposto», a illuminare circostanze e persone e, insieme, a mostrare la loro diversità. Secondo la classica definizione, l’umorismo è, infatti, espressione di tragicità, di contrasto doloroso, di crisi fra realtà e apparenza.
Come il personaggio del drammaturgo inglese è la metafora della crisi del Rinascimento per l’affermarsi dei valori dinamici della nascente borghesia, così la riscrittura del musicista italiano, alle soglie del Novecento e dei suoi inquietanti fantasmi, diventa la parodia del tragico, la vittoria dell’antieroico, la trasformazione dell’«alto» in «basso». O, come scrive Keir Elam, «il discanto del disincanto» [ELAM 2000, p. 33].
Falstaff è la riflessione di un vecchio genio che distilla sapienza e ha il coraggio di mettersi in gioco; scardinando intreccio e struttura, l’opera si avvolge, al pari di Macbeth e Otello, intorno ad un’assenza. E’ il segno della modernità.
Ma c’è dell’altro. Ho detto in precedenza del carattere meta-teatrale della riscrittura verdiana. Infatti l’ironia della citazione o intertestualità, asse portante dell’arte del Novecento, trova un complesso archetipo in Falstaff costituito da continui rinvii, allusioni, rimandi.
Il suo Tutto nel mondo è burla non è solo il distacco dell’uomo dalla vita. E’ anche un burlarsi di tante lacrime e sospiri, di tutto un mondo da lui creato e vissuto, di una società che lo aveva ora vilipeso, ora osannato.
Pertanto, come già Shakespeare, Verdi fa il verso alla cultura del suo tempo (da Mozart a Rossini, a Wagner; dal mondo dell’accademia a quello religioso e politico); non risparmia nemmeno sé stesso (da La traviata a Otello, a Il trovatore, dal Requiem al Ballo in maschera) e la propria filosofia dell’arte («l’arte sta in questa massima: rubar con garbo e a tempo») affidata al commento di un ingombrante quanto inaffidabile Falstaff.
Infatti la sua grassezza, annota Elam [ELAM 2000, p. 28], da eccesso fisico sconfina nella irrequietezza di chi vuole, come Bottom in A Midsummer Night’s Dream, accaparrarsi tutte le parti della commedia: dal corteggiatore al corteggiato, dal miles gloriosus plautino al libidinoso senex, dal vice al fool del dramma medioevo-rinascimentale. Ma l’autoesaltazione di Falstaff, come la sua ridondanza fisica, si dimostra un’arma contro sé stesso: sollecita una serie potenzialmente infinita di beffe ai suoi danni ordite dalle allegre comari di Windsor.
Da lusinghiero emblema dell’Ordine della Giarrettiera, il vecchio Sir John diventa per Verdi, come già per il «Cigno di Avon», una icona della crisi fin de siècle, ma, al tempo stesso, un esempio di gioiosa coerenza in un mondo stranamente privo di ordine. Il tragico inglese, dunque, per Verdi, come per gli autori del nostro tempo, da T.S. Eliot a Joyce, a Beckett, a Stoppard, è l’occasione per dire altro o, con le parole di Nietzsche, il tentativo di rimodellare il passato per costruire il futuro.
Non diverso è il significato della raccomandazione «tornate all’antico e sarete nel giusto» [p. 424], diretta ai giovani musicisti interessati ai movimenti di avanguardia prima di costruirsi solide basi culturali. Apparsa con largo anticipo sui tempi, l’ ultima fatica di Verdi suscitò giudizi controversi, se non del tutto negativi (Barilli, Stravinskij), superati soltanto ai nostri giorni.

L’arte muove incontro al suo dissolvimento, toccando frattanto – cosa che è in verità massimamente istruttiva – tutte le fasi dei suoi inizi, della sua infanzia, della sua imperfezione, delle sue temerarietà ed eccessi di una volta: essa interpreta, nel suo perire, il suo nascere e il suo divenire.

Il giudizio di Nietzsche [1965, p. 155] sul carattere dinamico del teatro di Euripide ben si addice a quello di Verdi e, in particolare, all’ultima composizione, una novità assoluta nell’ambito del melodramma europeo.
La grande arte è sempre un’arte di crisi, di rottura dei canoni tradizionali per dar vita a nuove forme nelle quali il passato, attualizzato nel presente, propone un diverso concetto di ordine e unità. Considerata, appunto, né melodia né armonia, la musica di Verdi inaugura il regno dell’arte senza nome, il cui avvento è auspicato in una lettera all’amico Arrivabene:[…] se verrà un giorno in cui non si parlerà più né di melodia né di armonia, né di scuole tedesche, italiane, né di passato né di avvenire […] allora forse comincerà il regno dell’arte [p. 424].Parole che avviano il percorso delle «note espanse», o musica elettroacustica del nostro tempo.
L’altezza dell’arte verdiana, perennemente protesa a «inventare» verità drammatiche, perde così la connotazione di scrittura strettamente romantica, patriottica o, ancor meno, popolare per allinearsi con quella dei grandi «dissidenti» del passato e del presente capaci di tramandare il patrimonio inestimabile della creatività e della sua dirompente forza innovatrice. Fra le fonti europee di tale forza, un posto di rilievo, dunque, va assegnato a Shakespeare.
Nella storia della cultura, se nulla è veramente originale, nulla può essere considerato identico, in quanto la forma artistica di ogni tempo è la risultante del rapporto instaurato con il passato: così affermano Nietzsche («Il responso del passato è sempre un responso oracolare: solo come architetti del futuro, come sapienti del presente, voi lo capirete» [1973, p. 55]) e più tardi T.S. Eliot: «No poet, no artist has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists» [1958, p. 15]. Rapporto da non intendere come rifiuto o gratuito superamento della tradizione, ma come mezzo indiretto di conoscenza e creatività nel dar vita a forme autonome e diverse dal macrotesto. Tale è il caso dell’opera verdiana.
Pertanto, il rapporto preferenziale con il drammaturgo inglese, chiamato dall’italiano «il gran maestro del cuore umano», sollecitò Verdi a comporre «altro», a far risuonare i grandi accordi5 e a comunicarne la bellezza, quell’ineffabile emozione senza tempo oltre il nostro mondo reale.


1 PORZIO 2000, p.166. A questa edizione rimando per ogni altra citazione con il numero di pagina,se non diversamente indicato. 2 DEGRADA 2000a, p. 59 3 DEGRADA 1997°, p. 85 4 CANESSA 1985, p. 5.

5 Faccio mio il giudizio di FORSTER 1962, pp. 151-170 sulla Quinta sinfonia di Beethoven e i grandi romanzieri dell’Ottocento.



Bibliografia

  • BALDINI, G. : Abitare la battaglia, Milano, Garzanti. 1970
  • BARBLAN, G.: // Macbeth e la crisi verdiana, English Miscellany, Roma, Ed. Storia e Letteratura, 15. 1964

—————: Spunti rivelatori della genesi del «Falstaff», Atti del Primo Congresso Internationale di Studi Verdiani, Parma, I.N.S.V. 1969

  • BENTIVOGLIO, L.: Il mio Verdi, Roma, Socrates. 2000
  • BEVILACQUA, A.: «Una frase di Maria Luigia», Corriere della sera, 7 dicembre. 2000
  • BOITANI, P.: «La sfida a “padre Shakespeare”», Sole 24 Ore, 21 gennaio. 2000
  • CANESSA, F.: Il palazzo incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto. 1979

———— : Observations on the Genesis of Verdi’s Macbeth, in ROSEN, 1984 ———— (a cura di): Falstaff, Napoli, S. Carlo. 1985

  • D., PORTER, A., eds., Verdi’s Macbeth. Sourcebook, New York London, W.W. Norton & Company.
  • DEGRADA, F. (a cura di),: Otello, Milano, uff. edizioni Teatro alla Scala. 1997 a.

———— (a cura di),: Macbeth, Milano, uff. edizioni Teatro alla Scala. 1997 b
———— (a cura di), (1998): Falstaff, Milano, uff. edizioni Teatro alla Scala.
———— (a cura di): Giuseppe Verdi, Milano, Skira. 2000 a
———— (a cura di): Giuseppe Verdi: l’opera, l’uomo, il mito, Catalogo mostra, Milano. 2000 b

  • ELAM, K.: «Fat Falstaff hath great scene», in SILVANI G. e C. 2000
  • GALLICO (a cura di), Shakespeare e Verdi, Parma, Univ. di Parma.
  • ELIOT, T.S.: Selected Essays, London, Faber & Faber. 1958
  • ELLMANN, R.: James Joyce, Milano, Feltrinelli. 1982
  • FORSTER, E.M.,: Aspects of the Novel, London, Pelican Book. 1962

———— : Selected letters, vol. I, London, Collins. 1983 ———— : Selected Letters, vol. II, London, Collins. 1985

  • GAVAZZENI, G.: II sipario rosso, Torino, Einaudi. 1992
  • LUZIO, A. (a cura di): Carteggi verdiani, I-II, Roma, Reale Acc. 1935 d’ltalia.

————: Carteggi verdiani, III-IV, Roma, Acc. Nazionale dei Lincei. 1947

  • MILA, M.: Il melodramma italiano dell’Ottocento, Torino, Einaudi. 1977
  • MULA, O.: Giuseppe Verdi, Bologna, II Mulino. 1999
  • NlCASTRO, A.: // melodramma e gli italiani, Milano, Rusconi. 1982
  • NIETZSCHE, F.: Umano troppo umano e frammenti postumi, Milano, Adelphi. 1965

———— : Sulla utilità e il danno della storia, Milano, Adelphi. 1973
———— : Epistolario 1850-69, Milano, Adelphi. 1977

  • PADUANO, G.: Quattro volti di “Otello”, Milano, Rusconi. 1996
  • PORZIO, M.: Verdi, Libretti e Lettere 1835-1900, Milano, Mondadori. 2000
  • PRINCIPE, Q.: «La forza di un destine europeo», Sole 24 Ore, 5 novembre. 2000
  • RlNALDI, M.: Il “Falstaff” di Giuseppe Verdi, Firenze, Monsalvato. 1942
  • SABBETH, D.: «Dramatic and Musical Organization», in Falsaff. Atti del Terzo Congresso internazionale di Studi Verdiani, Parma, I.N.S.V. 1974
  • SANTI, P.: «Verdi la dignità di essere liberi», Il Secolo XIX, 28 aprile. 2001
  • SMITH, P.J: La decima Musa, Firenze, Sansoni. 1981
  • VlTTORINI, F.: Shakespeare e il melodramma romantico, Milano, La Nuova Italia. 2000