La Questione Romantica > Orrore/Terrore

Giovanna Franci

«What a piece of work is man, that he should enjoy this kind of thing! A very odd piece of work – indeed, a mystery». Dorothy L. Sayers

Quando Alice, all’inizio del romanzo omonimo di Lewis Carroll, vede improvvisamente un bianco coniglio dagli occhi rosa che le passa davanti correndo con una sveglia al collo e dice «è tardi, è tardi», non si stupisce e accetta il fatto come naturale. Solo più tardi, ripensandoci, confessa a se stessa che forse avrebbe dovuto meravigliarsene, ma, sul momento, l’unica cosa che desiderava fare era quella di seguire il coniglio nella sua tana, da cui precipiterà in un pozzo molto profondo. Così comincia la storia di Alice in Wonderland, e così noi lettori precipitiamo con lei nel meraviglioso mondo del nonsense, rispondendo a un’eventuale obiezione -come ci ricordava Carlo Izzo citando Auden – «Why not?», «perchè no?».

Alla base del romanzo gotico, invece, sta proprio il principio dello stupore: il fatto inaspettato e terribile deve provocare nel lettore astonishment, amazement, in una tensione continua – la suspence – fra reale e irreale, fra razionale e irrazionale. Pensiamo alle teorie del Burke nella sua Enquiry into the Origin of the Sublime, o anche al saggio di E. A. Poe The Poetic Prin­ciple, in cui l’autore si augura che un’opera d’arte sia giudicata per l’impressione che suscita, per l’effetto che produce.

Davanti alla porta del palazzo gotico, che ci separa dal mistero, o dietro di essa, sta sempre ad aspettarci il fatto terrificante o l’evento soprannaturale, e l’autore, con le sue tecniche e i suoi devices più o meno sottili, deve mantenerci in questo ambiguo equilibrio. Ma la tecnica non basta a dar conto dell’effetto di stupore. E’ necessario un incontro speciale fra la capacità di invenzione dell’autore e l’immaginazione del lettore. Due citazioni possono soccorrerci per avvicinare il problema. La prima è presa dal Saggio sulle origini della conoscenza umana di Condillac:

L’invenzione consiste nel sapere come fare nuove combinazioni. Ci sono due tipi: il talento e il genio. II primo combina le idee di un’arte o di una scienza conosciuta in un modo adatto a produrre gli effetti che ci si possono naturalmente aspettare. II secondo prospetta le cose da un punto di vista che lui solo possiede; da origine a una nuova scienza o traccia una via alla verità alla quale nessuno poteva sperare di giungere.

La seconda citazione è tratta dalle parole del monaco Schedoni alla fine di The Italian di Ann Radcliffe:

The opinions you avowed were rational

[…] but the ardour of your imagination was apparent, and what ardent imagination ever was contented to trust to plain reasoning, or to the evidence of the senses? It may not willingly confine itself to the dull truths of this earth, but, eager to expand its faculties to fill its capacity, and to experience its own peculiar delights, soars after new wonders into a world of its own!

Fra questi due poli si possono tracciare le vie della produzione fantastica, con modalità diverse fra il meraviglioso e il perturbante.

1. Qual è oggi la reazione di un lettore moderno alla lettura del romanzo gotico? Può il nostro lettore, avveduto e smaliziato, spaventarsi realmente di fronte ai terrificanti marchingegni messi in scena e stare «letteralmente» al patto con l’autore? Affermava il regista John Carpenter in un’intervista di alcuni anni fa: «Fare un film sui fantasmi è complicatissimo, come fare un film su Dio […], ed è impossibile dare loro forme che non siano ridicole»; o – come affermano altri – che non siano scontatamente previste nell’immaginario collettivo quotidiano. Da cui deriva una produzione seriale nella narrativa e, successivamente, nel cinema, di sicuro successo di cassetta ma non sempre artisticamente efficace.

Ma il gioco con la paura continua ad affascinare autori e lettori/spettatori. Un’altra citazione, più recente, di Francis Ford Coppola che ha prodotto una nuova versione del vampiro al cinema, tratta dal romanzo di Bram Stoker, può aiutare a far procedere il ragionamento. A chi gli chiedeva per quale ragione aveva riproposto una storia fatta ormai centinaia di volte, dava la sua versione: «Perchè il vero Dracula non è stato ancora fatto». Lungi dall’essere un genere meramente formulaico, quindi, il gotico, o letteratura del terrore, continua a sfidare gli artisti. Anzi, secondo Leslie Fiedler, è l’unico genere narrativo che oggi funziona!

Una spiegazione di questa perenne vitalità si può forse trovare nella sua origine e nella sua storia. II gotico, infatti, non nasce come un genere nuovo e autonomo, ma come un insieme di tante componenti narrative ed emotive che si adattano al gusto del tempo e che subiscono metamorfosi continue, con in più la consapevolezza del suo essere «gotico» appunto, di essere revival. Scrive Walpole a un amico: «I perceive you have no idea what gothic is; you have lived too long amidst true taste, to understand venerable barbarism». Questo culto del recupero diventerà il collezionismo di «horrible rarities», di «abominable treasures» nel Vathek di Beckford, grottesca parodia del terribile villain, o diventerà la sconcertante atmosfera di luoghi «suggestivi» in cui è ambientata la vicenda di The Monk di M.G. Lewis, dalla «gothic obscurity» della chiesa, al castello «awful and picturesque», alla tipica illusione dipinta come le quinte di un teatro, dove c’è «a rustic grotto, formed in imitation of an hermitage», trionfo dell’imitazione. Possiamo fare risalire allora al gotico anche la nascita del kitsch?

Gotico, quindi, è prima di tutto un luogo (castello, abbazia, cimitero, prigione, cripta) reliquario di oggetti spesso di cattivo gusto, ma è anche luogo come huis-clòs, opprimente pur se ha dei confini indefinibili, perchè – come diceva Mefistofele nel Dr Faustus di Marlowe – «l’inferno è là, dove noi siamo». II lettore moderno, allora, incurabile cercatore di bric à brac, coglie prima di tutto l’elemento del gioco letterario, dell’allusione colta, della citazione più o meno nascosta, dell’ammiccamento. Ma non manca il senso sublime del terrore (con un misto di piacere e di angoscia), in cui terror è inteso nella sua opposizione a horror, dalla Radcliffe in poi.

Italo Calvino, grande maestro di sentieri immaginari, ha sottolineato come la componente visuale, nella sua suggestione macabro-allucinata, sia importante nella letteratura fantastica, accanto a un filone in cui «il soprannaturale fa parte di una dimensione interiore e come tale resta invisibile». II primo tipo viene definito da Calvino «il fantastico figurato», e un esempio per lui e la Venere d’llle di Mérimée o L’uomo della sabbia di Hoffmann; mentre il secondo è il «fantastico mentale», e in questo caso egli cita The Bottle Imp di Robert Louis Stevenson o le ghost stories di Henry James.

II problema è allora di stabilire se sia più terrificante un’accumulazione di orrori fatti sfilare sotto i nostri occhi (anche la Reeve sosteneva che un meccanismo eccessivo nell’uso del soprannaturale e dell’orrore rischia di distruggere l’effetto che mira a produrre), o se non lo sia piuttosto l’incubo del vago, dell’indefinito, il senso metafisico dell’ignoto e del mistero. Per Borges, grande lettore oltre che scrittore di letteratura fantastica, le pagine finali del Vathek, con la disadorna Hall di Eblis dove le anime dannate errano in un’eternità di solitudine disperata, con la mano sul cuore diventato un braciere ardente, rappresentano «il primo inferno realmente atroce della letteratura».

2. E’ un luogo comune della critica sul gothic romance vedere una progressione nella tecnica del terrore, dalla fase più ingenua di Walpole a quella trasgressiva di Lewis, per giungere alla produzione più matura di un Maturin già in piena età romantica.

Se questo è parzialmente vero (soprattutto per quanto riguarda la sempre crescente ambiguità e il tema del «doppio»), è vero anche che in uno scrittore come Walpole si mettono in atto tutte le strategie e gli stratagemmi del fantastico, come «messa in scena» del terrore, «gioco con la paura», ma anche come inquietante scambio fra «realtà» e «illusione della realtà» nel prodigio dell’invenzione verbale.

Quando Walpole scrisse il suo romanzo gotico era passato poco più di un ventennio dalla pubblicazione della Pamela di S. Richardson, accolta con consenso unanime dal pubblico inglese, e i nomi di Fielding e Smollett, accanto a quello di Richardson, erano lì a testimoniare i fasti del genere narrativo. II trionfo del sentimento e della «natura» ebbe un effetto immediato, e per qualcuno anche doloroso: decretò il tramonto del romanzo cavalleresco, che pure aveva conosciuto momenti di grande splendore, e che nelle sue ultime forme farraginose e involute riusciva ancora ad affascinare qualche lettore, sempre più raro e isolato. Quelle epiche e favolose vicende apparivano adesso, a un pubblico assetato di «realtà», nient’altro che un cumulo di vaneggiamenti e superstizioni, buoni giusto per lettori rozzi di epoche barbariche. Così il Medioevo e tutta la sua produzione di «meraviglioso» venivano messi al bando senza indulgenza, o tutt’al più relegati nelle nurseries, nelle cucine, per intrattenimento della servitù, o in qualche ripostiglio remoto della memoria infantile. Ci fu, tuttavia, chi non si lasciò coinvolgere dall’ondata di entusiasmo che le nuove forme narrative stavano suscitando senza riserve.

A Horace Walpole, ancora incantato dalle incursioni nel favoloso che gli consentivano i libri di Madame D’Aulnoy o di Anthony Hamilton, i romanzi in voga sembravano scarsamente originali, del tutto privi di immaginazione. In una parola: insopportabili. Le opere di Richardson, quel «libraio di professione» come lui lo definisce, erano «lacrimevoli e tediose lamentazioni», presentate con il tono indisponente di un predicatore metodista. Né migliore considerazione dimostrò per Fielding, la cui opera finì per giudicare «spiacevolissima sempre».

Fu in questo clima di trionfante realismo (almeno in narrativa), che nel 1764 uscì il Castle of Otranto, destinato a inaugurare un genere dalle molte fortune e al quale il nome di Walpole doveva piegarsi indissolubilmente. Scriveva all’amico Cole: «Vuoi che ti confessi qual è stata l’origine di questo mio romanzo? Una mattina, i primi del giugno scorso, mi sono svegliato da un sogno, di cui tutto quello che mi rimase impresso fu che mi vedevo in un antico castello (un sogno molto congeniale per uno come me con la testa sempre piena di storie gotiche)». Quale che fosse l’ispirazione del romanzo, vera o no la suggestione onirica, è certo che Walpole con la sua storia gotica ci ha raccontato un sogno, o meglio il suo desiderio del «meraviglioso» perduto. Suggestione, quella onirica, che sarà fondamentale in tutta la dimensione del fantastico e del terror fino ai nostri giorni, dove sogno e realtà virtuale si sovrappongono con l’aiuto delle nuove tecnologie di rappresentazione.

Qualche anno dopo, a Madame Du Deffand, Walpole scriveva così:

Dicano pure i critici quello che vogliono, la cosa non mi tocca. The Castle of Otranto non è stato scritto per questo secolo, che non esige altro che la fredda ragione. Vi giuro, e voi mi giudicherete più matto del solito, che di tutte le mie opere questa è la sola che mi abbia interamente soddisfatto. Ho lasciato del tutto libera la mia immaginazione….

Walpole aveva scarse simpatie per la sua epoca. II rimpianto per un mondo ormai perduto, collocato in un passato remotissimo, del tutto «fuori moda» (ma proprio grazie a lui destinato a tornare di moda), lo portò a reinventare la dimensione del «meraviglioso»; senza dimenticare che la sua teorizzazione del «romance moderno», seguita dal saggio di Clara Reeve The Progress of Romance (1785), pose le basi del grande dibattito sull’arte del romanzo.

La sua costruzione di una vicenda gotica, perfetta nell’artificio di un gotico, appunto, tutto di fantasia, si realizzava con lo stesso spirito che lo aveva indotto, alcuni anni prima, a crearsi un angolo di Medioevo che trovava la sua forma più compiuta nelle pietre e negli arredi di una dimora in stile gotico. Con la costruzione puntigliosa, divertita e appassionata del castello di Strawberry Hill, con le sue collezioni di oggetti originali e di copie più vere del vero, il gioco delle finzioni e della nostalgia era già cominciato. Nell’età della «fredda ragione», alle origini del «moderno», Horace Walpole con il Castle of Otranto ha raccontato una «fiaba». Scrive Roger Caillois in pagine molto famose che la dimensione fiabesca appartiene a un mondo mitico e lontano in cui il «meraviglioso» si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza. II lettore della fiaba, disposto alla più completa credulità, sa che tutti gli eventi e gli interventi soprannaturali vi possono avere un libero, per così dire, «naturale» accadimento.

Per Walpole, che reintroduce il «fiabesco» in un mondo che per definizione lo esclude di forza, si tratta, in nome della rivincita dell’immaginazione, di stringere un nuovo patto con il pubblico invitato ad assistere ai suoi portenti architettonici e narrativi. Nella prefazione alla prima edizione del Castle, l’autore sembra sottolineare la propria distanza nei confronti dei fatti narrati, dei lettori antichi e dell’autore presunto, e invita i propri lettori a comportarsi di fronte ai fatti come se fossero veri, così come i personaggi-attori della sua «messa in scena» si comportano «as believing them», come se ci credessero.

II lettore accetta, sta al gioco, e finge di credere come reali e plausibili le più bizzarre e stravaganti manifestazioni dell’occulto. Chi entra nel recinto magico, nello spazio chiuso degli orrori, nel luogo deputalo del prodigio, sa fin dall’inizio di imbattersi in situazioni mirabili e straordinarie, ed è pronto a vivere tutta la gamma delle sensazioni che quegli eventi promettono. II soprannaturale vi è propriamente di casa. II lettore si dispone, così, a scendere in quei labirinti tenebrosi con lo spirito di chi affronta un’esperienza insolita ed eccitante, certo com’e fin dal suo ingresso in quel mondo oscuro e misterioso così perfettamente congegnato da produrgli insieme terror e pity – di ritrovare all’uscita le consuete certezze di un mondo intatto e ordinato secondo le leggi della razionalità Non si è trattato, in fondo, che di un viaggio, o di un piacevole incubo. Nessun timore: i prodigi più spaventosi e sconvolgenti rimarranno relegati all’interno delle mura gotiche. Come aveva scritto Burke, si può provare «un dilettoso orrore» quando il pericolo o il dolore sono con-templati «a una certa distanza». E Walpole quella lezione l’ aveva imparata bene.

II fantastico, invece, ancora secondo Caillois, appartiene a un momento posteriore al fiabesco. Esso nasce soltanto dopo il trionfo della concezione scientifica di un ordine razionale, dopo il riconoscimento di un determinismo rigoroso nella concatenazione delle cause e degli effetti. Nasce, cioè, «quando tutti sono più o meno persuasi dell’impossibilità del miracolo». Nell’ambito del fantastico il prodigio acquista una carica terrifica che costituisce un’insopportabile lacerazione del reale. Con l’apparizione del soprannaturale si genera un panico sconosciuto, e l’impossibile sopraggiunge quale portatore improvviso di un disordine che la ragione non riesce a dominare. In Walpole la dimensione fiabesca, evocata nelle cupe atmosfere del Castle, si accompagna alle invenzioni fantastiche degli Hieroglyphic Tales. Fiabesco e fantastico sono in Walpole due mondi compresenti, e tuttavia separati. Nel suo rapporto conflittuale con la realtà, il fantastico di Walpole ha bizzarrie e singolarità che, senza far ricorso a interventi soprannaturali, mettono in questione e stravolgono le più ordinate e sicure concatenazioni.

Ancora più inquietante dell’apparizione del fantasma, allora, è la presenza del paradosso, attraverso il quale si opera la frantumazione della coerenza logica del mondo. Ed è da queste pagine, tutte costruite sui giochi sottili e beffardi del nonsense, che si produce il disorientamento, perchè proprio quando tutti sono persuasi dell’impossibilità del miracolo, Walpole lo intro­duce di nuovo, e lo fa scandalosamente possibile con l’eleganza ironica di chi sorprende il buon senso del lettore e le sue razionali certezze. Nel Castle si dava il procedimento opposto; là, ogni evento incredibile e prodigioso diventava, per citare ancora Caillois, «istituzionale». Nei Tales, con gli effetti paradossali dell’illusionismo verbale, l’autore mette in moto un meccanismo che ha un congegno ancora più perverso del terrore: nel montaggio divertito dell’assurdo si smonta e si scompone l’assurdità del mondo. Se nel Castle la suspence era interna al racconto, come elemento indispensabile che accompagna il lettore e ne conferma le attese e il piacere dei trasalimenti, nei Tales la suspence sembra stabilirsi nel rapporto stesso ambiguo e problematico a cui l’autore costringe il suo lettore, preso nella rete del racconto e subito estromesso. II trucco delle apparizioni e sparizioni continua come in una ghost story, ma qui giunge a dissolvere sotto gli occhi del lettore la struttura stessa del racconto. E in questo modo si frantuma anche la realtà, trasformata nei segni geroglifici più astrusi e illeggibili. Così, Walpole è insieme l’ideatore del terrore vecchia maniera, e nello stesso tempo l’anticipatore della condizione uncanny dell’uomo moderno, senza più basi né certezze.

Se Walpole, in modo irriverente e beffardo, illuministicamente scettico, ha minato il castello della ragione alle sue fondamenta, Matthew Gregory Lewis («Monk» Lewis dal suo romanzo più famoso), già in questo romantico, lo fa esplodere, recuperando alla parola le sue capacità magiche e demoniache. In Walpole il perturbante si rivela attraverso le maglie stesse della ragione e della logica; ma c’e un recupero, si può dire kantiano, della suprema ironia. In Lewis i confini fra razionale e irrazionale, realtà e finzione si oscurano, confondendosi e facendo sprofondare il lettore in un abisso senza limiti. II caos che Walpole aveva lucidarnente analizzato nei Tales, sommerge Lewis in una dimensione da incubo. Di qua e di là dalla soglia del mistero. II perturbante, in Lewis, non consiste tanto nell’accumulo di orrori che fa sfilare davanti ai nostri occhi, né nei mostruosi delitti del monaco Ambrosio, e neppure nell’evocazione del Diavolo o nell’apparizione della Bleeding Nun; quanto piuttosto nella sua allegoria del doppio che, ossessionando tutto l’Ottocento, anticipa la psicanalisi con la scoperta dell’inconscio. Ma non è tutto. La parola e la scrittura acquistano una carica simbolica di trasgressione totale, quella «stregoneria verbale» che tanto piaceva ai Surrealisti, e che in questa fase assume un forte senso di energia negativa. L’aspetto del gioco è qui assente. II mito del peccato originale torna a ossessionare: la colpa del monaco adombra quella dello scrittore che desidera ricreare il mondo attraverso il linguaggio. La authorship mania di cui parla Lewis è una passione divorante, alla quale lo scrittore non può sottrarsi e che diventa una grande sfida contro il Verbo, contro l’autorità della tradizione della scrittura per eccellenza rappresentata dalla Bibbia. Lo scrittore, come un Dio o come un Diavolo, dice e scrive l’indicibile, aprendo di fronte a se l’infinito dei possibili. E la terribile punizione del monaco Ambrosio, alla fine del romanzo, avviene non casualmente in sette giorni: una anti-creazione del mondo.

Un grande critico di oggi, che si definisce un «romantico tardivo», Harold Bloom, vede la letteratura essenzialmente come una demonizzazione eroica, e ne recupera, dopo le strutturali certezze, l’aspetto perturbante e sublime. Forse è proprio questa l’ossessione dell’artista moderno, almeno dal Romanticismo in poi: quella di vivere alternativamente l’illusione del grande potere inventivo (e quindi creativo) della parola, e nello stesso tempo la delusione per la sua totale «finzionalità». Ma questa è anche l’essenza del fantastico.

3. «All’inizio e alla fine della letteratura c’e sempre un mito», scriveva Borges. E il mito spesso produce mostri. I due mostri dell’immaginario moderno, cui torniamo ossessivamente alla fine del nostro secolo come se l’appuntamento epocale dovesse segnare un nuovo misterioso incontro, una trasformazione inaspettata, sono nati insieme, all’inizio del secolo scorso. Sono il vampiro, da una parte, e la mostruosa creatura del Dr. Frankenstein, dall’altra, due miti di onnipotenza, uno per vincere la morte, e l’altro per creare, come Dio, la vita dalla inerte materia. Ed entrambi, il primo con il sottile sistema della circolazione del sangue, e il secondo con la composizione artificiale di una vita, di un corpo inteso non solo come body, ma anche come corpus testuale, sono più che mai vicini a quello che è il grande mito romantico, dell’artista come creatore e nello stesso tempo dell’artista come genio maledetto. Come dice lo stesso Maturin, autore di Melmoth – uno degli ultimi tales of terror d’annata – «l’artista e un criminale dell’immaginazione».

Essi videro la luce, se così si può dire, in una notte buia e tempestosa, quando un gruppo di amici di Lord Byron, in vacanza o in esilio sul lago di Ginevra, misero a loro volta in scena il gioco con la paura, passando il tempo a raccontarsi storie del terrore. E nacque il Frankenstein di Mary Shelley, e il primo vampiro letterario, quel lungo racconto dal titolo appunto The Vampyre, con il quale il medico di Byron, John William Polidori, voleva vendicarsi del suo sprezzante padrone rappresentandolo sotto le spoglie di un vampiro. Ed è così che, con il nome di Lord Ruthven e con le sembianze di un dandy della Reggenza, più che nelle fattezze che impareremo più tardi a riconoscere, il vampiro fece il suo ingresso ufficiale sulla scena letteraria inglese. Le imitazioni, traduzioni e riscritture cominceranno subito, fuori e dentro l’Inghilterra. II vampiro, infatti, si libero ben presto della modesta trama in cui l’aveva relegato Polidori, per cominciare le sue incursioni sanguinarie nell’immaginario collettivo, pronto ad assumere tutti i nomi e tutte le sembianze, da quelle femminili dell’affascinante Carmilla di Sheridan le Fanu, a quelle grifagne ma nobilissime del conte Dracula di Brain Stoker.

Il cinema si è appropriato di questi mostri, figurazione delle nostre paure e dei nostri incubi, fin dall’inizio del muto, e ancor oggi gli schemi cinematografici ce ne presentano versioni serie o parodiche, esplicite o allusive. The Silence of the Lambs, di Jonathan Demme (1991), dove un serial killer noto come Buffalo Bill colleziona pelle di donne per farne un vestito, e certamente un adattamento contemporaneo del Frankenstein, a cui pure si richiamano gli esperimenti sulla clonazione e sulle nuove frontiere della genetica. Ma, come osserva giustamente Judith Halberstam, la differenza fra il romanzo gotico, con i suoi seguaci ottocenteschi, e il romanzo (o il cinema) post-moderno consiste in quello che Baudrillard ha definito «l’osceno della immediata visibilità». Non c’è più alcun mistero; tutto ci passa sotto gli occhi continuamente nel suo evidente orrore, senza più allusioni o simboli. E se l’AIDS e più di una metafora dell’epidemia, del contagio del vampiro, nella sua mostruosa circolazione del sangue, l’elenco delle sette vampiresche che si ritengono tali si può trovare oggi facilmente su Internet.

Torniamo, allora, a una lettura romantica delle creature della notte, dei mostri della nostra immaginazione, come ha in fondo fatto Coppola con il suo Dracula, un mito d’amore e di morte. Infatti, Dracula non è solo un esempio di multimedialità, presentandosi come un grande collage di tecniche diverse di registrazione e scrittura (dal telegramma, al dittafono, dalla macchina da scrivere agli appunti stenografati, e così via), ma è un altro esempio di quell’ossimoro che è la letteratura, perchè prende vita, letteralmente, solo nelle parole di chi ne ha avuto la visione, e la racconta. Di nuovo potremmo ripetere, come nei romanzi gotici dell’origine: «Sogno, o son desto?». Ma quanti componimenti poetici sono nati da un sogno!

L’incubo di Füssli ha rappresentato per quasi due secoli, nella sua ambiguità perturbante, l’emblema delle nostre moderne paure, come l’inconscio. Ma la paura dei nostri giorni rende l’incubo più tragico e meno palpabile, in una parola virtuale. Tutto questo trae origine dalla temperie onirica del romanticismo, che attraverso il dissolvimento della ragione apre la grande stagione dell’irrazionale nella quale siamo, pur con modalità diverse, tuttora immersi.

Bibliografia

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