La Questione Romantica > Donne/Uomini

Lilla Maria Crisafulli

Che, nel 1792, Mary sia nata sotto un’insolita stella è indubbio. Figlia di una coppia eccezionale, di William Godwin, filosofo radicale e dissenziente e, soprattutto, punto di riferimento per chi, alla fine del XVIII secolo, non si allinea sotto la bandiera di un’Inghilterra conservatrice e monarchica; e di Mary Wollstonecraft, donna davvero emancipata, scrittrice professionista e prima teorica dei diritti delle donne. Una stella speciale che si accompagna ad un destino altrettanto particolare, segnato dal senso di perdita e dalla differenza, ma anche da una scuola di vita che fa di Mary una creatura insolitamente forte.1

Mary Wollstonecraft muore a dieci giorni dal parto gettando un’ombra su quella figlia tanto attesa. Al filosofo, che lascerà per tutta la vita il ritratto della compagna scomparsa appeso alle pareti del suo studio quale segno tangibile di affetto e di stima, resta il compito di allevare Mary e Fanny, nata da una precedente unione della moglie. Godwin, padre del pensiero anarchico inglese, viene, a quarant’anni, in contatto per la prima volta con le esigenze quotidiane di due bambine, e si rivela, in questo caso, padre inadeguato.2 Le insicurezze di Fanny e i capricci di Mary lo sgomentano e Mary registra, sin dall’infanzia, l’incapacità di Godwin di venire a patti con i più naturali rapporti famigliari, di manifestare liberamente emozioni e sentimenti. Lo stesso Godwin, del resto, è consapevole della sua inadeguatezza al punto di decidersi ad un secondo matrimonio.3 Si sposa con Mary Jane Clairmont, vedova, dotata di una certa cultura e di molta determinazione.4 Madre di due figli, entrambi forse illegittimi, Jane è assai diversa dalla Wollstonecraft. Alla nuova compagna egli spera di poter delegare l’affettività della sfera domestica che, in fondo egli ritiene, è prerogativa femminile. Di fatto, tra Jane e Mary non si stabilirà alcun legame se non quello di una reciproca antipatia.5 La piccola Mary impara presto a dare a suo padre ciò che in realtà egli le chiede: i frutti intellettuali del suo giovane ingegno. Legge i grandi autori del lontano e recente passato, studia le lingue moderne e classiche, scrive e improvvisa conferenze, ascolta i celebri e discussi contemporanei che, come S. T. Coleridge, visitano suo padre e pubblica, a soli dieci anni, il suo primo lavoro.6 Un’educazione, per così dire, a tutto campo, che Godwin ama impartire personalmente tanto ai suoi figli che ai giovani discepoli. Solo con riluttanza egli accetterà d’iscrivere il figliastro Charles Clairmont e il figlio William a scuole regolari, ritenendo, al contrario di Mary Wollstonecraft, che l’istruzione debba essere non istituzionalizzata e pubblica ma libera e personalizzata, basata principalmente sul desiderio e il piacere d’apprendere del discepolo, che il maestro dovrà sapere coltivare, e sul massimo potenziamento dell’immaginazione del fanciullo. Merita leggere a tale proposito le osservazioni che egli appone, con lo pseudonimo Edward Baldwin, al volume Fables, Ancient and Modern, pubblicato dalla sua Juvanile Library:

If we would benefit a child, we must become in part a child ourselves. We must prattle to him; we must expatiate upon some points; we must introduce quick, unexpected turns, which, if they are not wit, have the effect of wit to children. Above all, we must make our narrations pictures, and render the objects we discourse about, visible to the fancy of the learner.

[MARSHALL 1984, p. 267]

Di fronte a questo tipo d’insegnamento, non sorprende scoprire nella giovanissima Mary (perchè tale ella è allorché il Frankenstein viene concepito) una straordinaria capacità d’invenzione e il gusto di vagabondare nei reami della fantasia; fantasia e immaginazione accompagnate tuttavia da una più che solida ragione e da una sicura capacità di riflessione.
Di converso, Mary trattiene per sé le semplici emozioni infantili e i più spontanei sentimenti filiali. Cela al padre emozioni e turbamenti per proiettarli invece su un piano esclusivamente onirico, vivendo nel ricordo di una madre mai conosciuta, Mary Wollstonecraft.7 Un culto che Godwin alimenta in ogni modo nelle figlie e al quale contribuisce in modo decisivo con la pubblicazione delle Memoirs of the Author of A Vindication of the Rights of Woman. Una pubblicazione difficile che non finirà di sollevare scandali e polemiche intorno alla figura della Wollstonecraft e che, per molto tempo, non consentirà a Mary d’incontrare il ricordo di sua madre in un privato spazio affettivo. Lo stesso semplice atto di lasciare negli anni a venire il nome di lei, Wollstonecraft, all’interno della propria firma di donna – Mary Wollstonecraft Shelley – segnala la volontà d’inscrivere nella propria storia la storia della madre.
Ma, come si diceva, Mary coltiva la ragione e la riflessione e, ancora secondo gli insegnamenti paterni, si abbandona a sogni e fantasticherie nei quali riesce a trovare conforto e sollievo nei momenti di crisi personale o di solitudine, come confesserà più tardi nell’introduzione al Frankenstein, o come manifestano alcuni criptici e fantasmagorici Tales and Stories che scriverà negli anni a venire:8

It is not singular that, as the daughter of two persons of distinguished literary celebrity, I should very early in life have thought of writing. As a child I scribbled; and my favourite pastime during the hours given me for recreation was to «write stories». Still, I had a dearer pleasure than this, which was the formation of castles in air – the indulging in waking dreams – the following up trains of thought, which had for their subject the formation of a succession of imagery incidents. […] What I wrote was intended at least for one other eye – my childhood’s companion and friend; but my dreams were all my own; I accounted for them to nobody; they were my refuge when annoyed – my dearest pleasure when free [Frankenstein (Hindle, 1992, «Introduction», p. 5)]

Tuttavia l’atteggiamento che Mary mostra in pubblico deve essere assai convincente se accogliamo senza troppe riserve il giudizio che William Godwin dà della giovane figlia:

She is singularly bold, somewhat imperious, and active of mind. Her desire for knowledge is great, and her perseverance in everything she undertakes almost invincibile […]. [Cit. in MARSHALL 1984, p. 294 e in SPARK 1951/1987, p. 17]

Verso la madre ella muove tanto sul piano ideale, rileggendo continuamente i suoi scritti, quanto fisicamente, andando di frequente, in una sorta di pellegrinaggio un pò morboso, a St.Pancreas [Grylls 1938, p. 27 e MARSHALL 1984, p. 306], il luogo ove ella è sepolta e dove, ci racconta ancora Godwin, si sigilla la promessa d’amore a Percy Bysshe Shelley:

On Sunday, June 26, he [Shelley] accompanied Mary, and her sister Jane Clairmont, to the tomb of Mary’s mother, one mile distant from London; and there, it seems, the impious idea first occurred to him of seducing her, playing the traitor to me, and deserting his wife.9

La personalità di Mary sembra costruirsi su una scissione: su quanto da lei ci si aspetta e su quanto è disposta a dare; su quanto dice e quanto cela, su una robusta intellettualità e una decisa volontà ma anche su un’altrettanto dirompente sensibilità ed una vivida immaginazione. Solo molti anni più tardi Mary arriverà a confessare ad un’amica, Frances Wright, donna altrettanto emancipata, tutto il peso ma anche la piena consapevolezza di quella doppia eredità:

The memory of my Mother has always been the pride and delight of my life; and the admiration of others for her has been the cause of most of the happiness I have enjoyed. Her greatness of soul and my father high talents have perpetually reminded me that I ought to degenerate as little as I could from those whom I derived my being. [BENNETT 1996, p. 179].

Di questa doppia identità/eredità Percy Bysshe Shelley, poeta ventunenne e rampollo ribelle di un baronetto inglese, s’invaghisce nel 1814.10 Shelley, già sposato e padre di una figlia, e Mary, quasi diciassettenne, risolvono di fuggire e di nascondersi in Francia, seguiti da una non meno giovane e sventata sorellastra di Mary, Jane (o Clara o Claire come in seguito si farà chiamare) Clairmont. La fuga è celebrata dai due all’insegna della comunione nella scrittura (non è casuale che Mary porti con sé, fra le poche cose raccolte in fretta, proprio i lavori che il suo ingegno e la sua volontà avevano sino a quel momento prodotto), entrambi i giovani intenzionati a dar vita ad un sodalizio memore forse solo della coppia parentale Godwin/Wollstonecraft.
Mary e Percy decidono di tenere un diario e di scriverlo a due mani. II diario – che Mary più tardi definirà in parte «Journal of Sorrow» [Journal, Book IV, pp. 428-495] – è a tutt’oggi la fonte più preziosa d’informazioni che gli studiosi degli Shelley hanno a loro disposizione. II Journal si divide complessivamente in cinque parti, ma solo le prime due contengono il contributo di Percy. La sua collaborazione, in ogni caso quantitativamente inferiore a quella di Mary, che ne resta la vera responsabile, cessa con la morte di William, il terzo e più amato dei loro figli. Tuttavia, dal luglio 1814 al giugno 1819 il diario prende forma, pagina dopo pagina, grazie alla scrittura asciutta e sovente segreta di Mary, e gli interventi aperti e sentimentali di Percy. Ognuno dei due scrive affinché l’altro lo legga, e ognuno registra col proprio sguardo ciò che ha colto l’occhio dell’altro. La complicità è inizialmente così intensa e assoluta da produrre un linguaggio forte e unico. Poi, poco alla volta, con la successiva perdita dei primi tre figli e il conseguente allontanarsi di Mary da Percy, la scrittura di Percy resta a margine fino a scomparire lasciando Mary la sola voce autoriale del Journal. Ma quel che più conta è che, durante questa prima fase di collaborazione, il Journal diviene per i due giovani una sorta di Prelude wordsworthiano, la registrazione della crescita delle loro due menti: fedelmente viene riportato tutto ciò che ciascuno studia e ciò che insieme leggono e discutono.
Sul piano creativo, dal 1814 al 1816 è Percy a scrivere e a produrre mentre Mary si apre docilmente ai suoi consigli, ne segue i percorsi e le scelte intellettuali, e risponde con gioiosa fierezza alle sue attese. Del resto, che il giovane poeta creda nelle capacità della compagna al punto di idealizzarla è un dato ben noto agli studiosi degli Shelley, una fiducia e un investimento che Percy Bysshe costruisce, in una certa misura, «a priori», quasi che la nascita di Mary, la paternità e la maternità di lei, potessero garantire l’entità del suo ingegno. Non a caso il 3 ottobre del 1814, solo tre mesi dopo la loro fuga nel continente, all’amico Thomas Jefferson Hogg, Shelley delinea nel modo seguente la figura di Mary:

In the month of June I came to London to accomplish some business with Godwin that had been long depending. The circumstances of the case required an almost constant residence at his house. Here I met his daughter Mary. The originality & loveliness of Mary’s character was apparent to me from her very motions & tones of voice. The irresi[s]tible wildness & sublimity of her feelings shewed itself in her gestures and her looks […] I do not think that there is an excellence at which human nature can arrive, that she does not indisputably possess, or of which her character does not afford manifest intimations.
I speak thus of Mary now – & so intimately are our natures now united, that I feel whilst I describe her excellencies as if I were an egoist expatiating upon his own perfections. Then, how deeply did I not feel my inferiority, how willingly confess myself far surpassed in originality, in genuine elevation & magnificence of the intellectual nature until she consented to share her capabilities with me.” [JONES 1964, I, p. 265]

Shelley, come Godwin, investe totalmente sulle capacità della giovane compagna11 vedendo in lei una sorta di narcisistico doppio. Egli guida Mary all’apprendimento del greco e l’aiuta a perfezionare la conoscenza del latino12 sollecitandola sempre ad intraprendere nuove imprese intellettuali e nuove letture. Scrive al proposito Betty Bennett:

That Shelley influenced Mary Shelley is easily demonstrated and documented by her letters. Godwin had provided his daughter with a far richer intellectual experience than women of that period ordinarily enjoyed, and Shelley continued the educational process, sharing with her the benefits of his own wide knowledge, acquired at school and through independent, avid reading. [BENNETT 1996, p. XVI]

Mary – mentre si assume con coraggio tutta la responsabilità del crescere – viene investita dalle difficoltà sempre più forti del loro ménage anticonvenzionale. L’ansia, come nell’infanzia, generata fra l’essere e l’apparire le entra nell’animo, le scava dentro inquietudini e provoca nuovi desideri di certezze. Il 1816 è una data fondamentale per il sodalizio Mary/Percy. In maggio, nel corso del viaggio che li porterà a Ginevra, acquista forma definitiva History of a Six Weeks’ Tour Through a Part of France, Switzerland, Germany and Holland (1817), che racconta le reazioni di Mary e di Shelley di fronte all’Europa post-bellica e ai sublimi scenari alpini. II travel book riprende in realtà il viaggio del 1814 della coppia in fuga attraverso un’Europa lacera e silente, ma include anche le lettere e le impressioni che, lungo il secondo itinerario europeo, Mary scrive alla sorella Fanny Imlay, rimasta a Londra, e quelle che Shelley invia all’amico Peacock;13 vi sono anche inclusi il resoconto di Shelley di una gita in barca sul lago di Losanna e la sua poesia “Mont Blanc”. Il libro di viaggio adombra inoltre un’altra influenza decisiva, Letters during a Short Residence in Sweden, Norway and Denmark di Mary Wollstonecraft che, come ci ricorda anche il Journal di Claire Clairmont, Percy, Mary e Claire leggono avidamente durante il loro primo viaggio in Europa. [KINGSTON STOCKING (ed.), 1968, pp. 34-27]. D’altra parte, osserva Lia Guerra in una recente edizione del Six Weeks’ Tour, «la decisione di trasformare la scrittura privata in un libro di viaggio fu probabilmente di Mary, certamente influenzata dalle letture svolte nell’estate del 1817 a Marlow, e che inclusero il canto III del Childe Harold’s Pilgrimage di Lord Byron, La Nouvelle Héloïse di Rousseau, Lettres persanes di Montesquieu e i travelogues di E. D. Clarke in Europa e di John Davies in America» [GUERRA 2000, p. 3].
Nell’estate ha origine il Frankenstein che, com’è noto, partorito interamente dall’immaginazione di Mary troverà in Percy (e nello stesso Godwin, alla cui attenzione il manoscritto, come sarà sempre abitudine di Mary in occasione di ogni suo nuovo lavoro, verrà sottoposto) un curatore invasivo, pronto a levigarne il linguaggio, a correggere errori materiali e ad accentuare l’umana benevolenza al punto che per molti versi si può parlare di co-editing14 [BENNETT 1996, p. XVI, HINDLE 1985, «Introduction», pp. xliv-xlv]. Shelley si preoccupa inoltre della sua pubblicazione e di farlo circolare fra recensori e critici, mentre nell’introduzione che appone alla prima edizione mostra tutta l’ammirazione per l’opera della giovane autrice. Un favore che Mary restituirà allorché curerà, nel 1824 prima e nel 1839 poi, le edizioni delle opere del comparso ormai scomparso [BENNETT 1996]. Eppure Frankenstein nasce dallo sguardo revisionista di Mary, quando, apparentemente silenziosa e devota ascoltatrice nelle serate in Svizzera, a villa Diodati, osserva e ammira Byron e Shelley mentre discutono sulla vita e sulla morte, di letteratura e di filosofia, e, intanto, la sua fantasia ricrea e manipola quelle conversazioni, sfigurandone, ironicamente, il senso e l’interpretazione.15
Frankenstein si presenta come una mislettura, non solo di quel «heap of books», quel mucchio di libri come lei ama definirli, della tradizione alta a cui prima con Godwin e poi con Shelley si era sin lì dedicata – Milton, Locke o Rousseau – ma anche manipolazione, tragica e grottesca, della figura, a lei fin troppo famigliare, dell’intellettuale radicale o illuminato.
Frankenstein, il «moderno Prometeo», si riduce ad una caricatura triste ed egoista del campione dell’umanità; la sua quest adombra la denuncia di Mary del mondo patriarcale della conoscenza e del potere, un mondo in cui era cresciuta e di cui il suo intelletto si era nutrito.
Ma, a ben vedere, il romanzo segnala soprattutto la difficoltà, o meglio, la «mostruosità» dell’atto creativo per se stesso, di un dare vita a quanto vita non ha se non nel breve, finzionale spazio di una pagina bianca o nella febbrile mente del filosofo e del filantropo che amano l’ideale e non fanno i conti con le umane, ordinarie cure e necessità.16 Con Frankenstein si annuncia il Romanticismo della differenza, una visione critica e revisionista delle attese e degli ideali di un’epoca che si percepisce ormai al tramonto. Contestualmente, si definisce la personalità di Mary Shelley: una scrittura di protesta verso obiettivi e ideali che non condivide interamente e una personalità costruita sulla differenza da chi la circonda. Nasce quella donna/luna a cui Shelley rimprovera, in Epysichidion, la luce fredda che chiude e cela l’anima tormentata. Nasce la Mary Shelley che interroga il compagno con sguardi di richiesta e d’incalzante rimprovero.
La giovane Mary si assume il compito di trascrivere amorevolmente i lavori di Shelley e acconsente a collaborare con Byron il quale, sorprendentemente, vista la ben nota gelosia per il proprio lavoro, le affida la trascrizione di alcuni dei suoi, dandole fiducia al punto di accettarne suggerimenti e revisioni. Mary apprende presto i meccanismi dell’immaginazione romantica e se ne serve fino all’iperbole minandone magistralmente i fondamenti. Allo Shelley, Elfo aereo e Don Chisciotte,17 come lei stessa lo definisce [BENNETT 1980-1988, vol. I, p. 22-23 e p. 27], che fa vela verso l’utopia della perfettibilità e della redenzione umana, ella risponde con distopie tanto lucide quanto assolute: da Frankenstein a Mathilda, da Valperga a The Last Man, si sviluppa il discorso dell’autonomia e della rivolta.18 D’altra parte gli strumenti atti a smantellare il castello dell’utopia romantica, Mary li attinge dai suoi stessi maestri. Da Godwin apprende come osservare metodicamente e descrivere in modo quasi anatomico stati d’animo individuali e reazioni interpersonali, così come quella profonda consapevolezza della legge della necessità, o causa/effetto, che governa ogni comportamento e vivere sociale. Da Shelley acquista la spinta ideale e la capacità immaginifica per edificare visioni e mondi utopici mentre da Byron le armi, come l’ironia, il pessimismo e la certezza della solitudine umana di fronte al male e alla creazione, per distruggerli. Tuttavia il dialogo fra Mary e Percy s’intriga e continua.
Consapevole delle critiche della moglie, nel poemetto che precede The Witch of Atlas, Shelley chiede a Mary di perdonargli l’eccesso d’ideale e di lasciare che la sua poesia abbracci liberamente l’astrazione e il sogno; è poi, però, la stessa Mary che egli ringrazia per i preziosi consigli e l’invito al realismo, allorché completa, nel 1819, The Cenci, la tragedia intrisa di storia e di carnalità che, unica fra le sue opere, gli darà qualche riconoscimento da parte della critica contemporanea. Intanto lei si allontana sempre di più e approda, nello stesso anno, al mondo straniato e silenzioso di Mathilda, il romanzo della sua solitudine e dei suoi lutti. Nel giugno 1819, a Roma, muore anche il terzo, e il più adorato dei suoi figli, William. Nei due mesi successivi, Mary, in attesa del suo quarto e ormai unico figlio, si chiude a tal punto in sé stessa da interrompere qualsiasi forma di scrittura, tranne pochissime lettere che invia agli amici più stretti. È solo il 4 agosto che riprende in mano il diario dove annota:

I begin my journal on Shelley’s birthday – We have now lived five years together & if all the events of the five years were blotted out I might be happy – but to have won & then cruelly have lost the associations of four years is not an accident to which the human mind can bend without much suffering. [FELDMAN & SCOTT-KlLVERT, 1987, vol. I, p. 293]

Da questo momento in poi Mary torna alla vecchia abitudine di elencare i libri che lei e Shelley vanno leggendo. Contestualmente, quasi ogni giorno, segnala i progressi della sua nuova composizione con la semplice parola -«write».
Mathilda vedrà la luce in un tempo brevissimo, tre settimane, ma quel che più importa è che il romanzo restituisce alla sua autrice la possibilità di continuare a vivere e a scrivere. Come in The Cenci, Mathilda accoglie il tema dell’incesto ma lo ribalta: dai termini politici e di denuncia sociale della tragedia shelleyana, ove l’abuso del conte Cenci sulla figlia è metafora della violenza di un potere arbitrario sui deboli e sugli oppressi; nel romanzo di Mary, l’incesto è racchiuso tutto nello spazio dell’assenza d’amore, o, meglio, nella denuncia di un amore innaturale e solipsistico e di una domesticità che non è in grado di esplicitarsi se non in un’assunzione narcisistica dell’altro. Se Beatrice Cenci, pur violata nel corpo e nell’anima, reagisce eroicamente e uccide il padre, ristabilendo, per quanto attraverso un gesto negativo, un qualche ordine sociale e naturale; nel caso di Mathilda, la dichiarazione d’amore del padre che ha preso consistenza solo nell’affermazione del suo esistere e non in un atto materiale, segna tanto profondamente la figlia da impedirle ogni futura azione e indipendente riflessione. E, ancora, laddove in The Cenci, la reazione cupa e disperata di Beatrice finisce con il restituirla ai riti e agli affetti sociali e famigliari, in Mathilda è il padre che, dopo la confessione, si uccide, abbandonando la figlia al vuoto di un’identità che non sa più decifrarsi. Mathilda, dopo il suicidio del padre che avviene significativamente per acqua, diviene una donna sospesa tra forze libidinali e forze distruttive, lacerata da un conflitto che è ben rappresentato dalla sua amicizia con Woodville, proiezione assai fedele di Shelley. Questo conflitto è drammatizzato nel dialogo che ha luogo fra Mathilda e Woodville, allorché Mathilda invita il poeta a morire con lei. Le ragioni di Mathilda, che sono le ragioni della morte, sono contrapposte al linguaggio del poeta che parla d’amore e d’ideali. Mathilda non vincerà sul desiderio di vivere di Woodville: il poeta continuerà a vivere e con lui, in modo significativo, vivrà la storia di Mathilda. Ma è lecito chiedersi se Mathilda cerchi davvero la morte o non, piuttosto, come nel caso della più giovane figlia di Mnemosine, nel Book of Thel di Blake, ella non rifiuti semplicemente ciò che le appare come un mondo d’impossibili richieste e aspettative. Similmente alla vergine Thel, nel poema di Blake, che, sentendosi «svanire come la bellezza del mattino dal giorno mortale, con un grido si rifiutò di nascere finché giunse nella valle di Har», così accade all’eroina di Mary. Ciò che ella chiede è una vita diversa che non sia fatta di soli ideali o di inarrestabile dolore, di perdite o di rimorso. Ella invoca un mondo che non sia troppo diverso da quell’Eden dove la Mathilda di Dante dimora. Una terra che si offre in tutta la sua armoniosa semplicità, resa fertile dalle acque dei fiumi Lethé ed Eunoé, che consolano e danno l’oblio.
Mathilda, avvicinandosi alla fine del suo viaggio esistenziale, dopo un confuso vagabondare, perduta fra le nebbie di un bosco, si sdraia a riposare sotto le fronde di un grande albero. Durante la notte cade una pioggia torrenziale che la bagna e che, simbolicamente, le restituisce la purezza originale e, con quella, una possibile riconciliazione con il proprio passato individuale e famigliare.
Mathilda accoglie quasi con gioia la malattia per consunzione che segue l’avventura notturna e che la porterà alla morte, celebrandola giornalmente in forma quasi ritualistica.
La conclusione del romanzo – un romanzo che, per inciso, Shelley non cita e Godwin respinge con sdegno quando la figlia glielo invia per la consueta revisione – mostra dunque un’eroina, o, meglio, un’anti-eroina che si consegna a un mondo liminale, protettivo e per nulla demanding, fatto di silenzio e di dimenticanza. Un mondo immaginario questo, simile tuttavia a quel grembo materno che Mary non conobbe per sé e che riteneva di aver negato anche ai propri figli.


1 Osserva al proposito R. Glynn Grylls, in un testo per molti versi ancora fondamentale:

The strength of Mary’s character throughout her life lay not in any natural placidity […] but in the conquest of herself that enabled her to attain calm. [GRYLLS 1938, p. 46]

2 Questo non vuol dire che Godwin non tenesse ai suoi figli, e a Mary in particolare con la quale, anzi, stabilirà un rapporto forte ed esclusivo come dimostrano lettere e Journals. Si veda, fra gli altri, la lettera che inviò all’amico Baxter l’8 giugno 1812, allorché Mary partì per il lungo soggiorno che la portò, per ragioni di salute, ospite presso quella famiglia scozzese. Imbarcata la giovanissima Mary, allora quindicenne, sul traghetto che la porterà a Dundee, William manifesta all’amico le sue preoccupazioni paterne:

I can not help feeling a thousand anxieties in part with her, for the first time for so great a distance; & these anxieties were increased by the manner of sending her, on board a ship, with not a single face around her that she has ever seen till that morning. […] I believe she has nothing of what is commonly called vices, & that she has considerable talent.

Ma, aggiunge Godwin, egli è certo che l’esperienza maturerà ulteriormente le sue doti caratteriali ed intellettuali:

I am anxious that she should be brought up like a philosopher, even lik a Cynic. It will add greatly to the strength & worth of her character. [CAMERON 1974, III, p. 102]

3 William Godwin non faceva mistero delle sue difficoltà tanto agli amici che ai semplici conoscenti, come bene intuirà la futura moglie Jane Clairmont, sua vicina di casa. Basti l’esempio di una lettera del 1797, scritta poco dopo la morte di Mary Wollstonecraft:

The poor children! I am totally unfitted to educate them. The scepticism which sometimes leads me right in matters of speculation, is torment to me when I would attempt to direct the infant mind. I am the most unfit person for this office. (KEGAN PAUL 1876, p. 281)

4 Che Mary Jane Clairmont fosse una donna energica e piuttosto colta lo dimostra anche il fatto che a lei Godwin affidò la guida amministrativa e una buona parte di quella culturale della loro Juvenile Library, libreria e casa editrice di libri per ragazzi.

5 Per questo rinvio al capitolo «The Shelley Circle» in MARSHALL 1984, pp. 293-294. Si veda in particolare p. 294:

Mary was clearly Godwin’s favorite, although he tried not to show it. For her part, Mary considered him her “God” and remembered “many childish instances of the excess of attachment” she bore him. Her stepmother soon discovered this “excessive and romantic” attachment and a potentially explosive situation developed between them. This was all the more dangerous since Mrs. Godwin always gave preference to her own daughter Jane but was forced to admit that she did not have ”such first-rate abilities” and that Mary always considered her stupid. The rivalry became so intense between stepmother and daughter that later Mary invariably referred to her as “an odious woman” and felt “som[e]thing analogous to disgust” whenever she mentioned her name.

6 La storia dal titolo Mounseer Nongtongpaw viene pubblicata nel 1809 dalla stessa casa editrice di Godwin, la Juvenile Library [MARSHALL 1984, p. 289]. Tuttavia i risultati di più recenti ricerche hanno dimostrato che la stesura del testo di Nongtongpaw non appartiene interamente a Mary, ma che di Mary è solo lo schema originale, cfr. «Appendix» to vol. 8 de The Novels and Selected Works of Mary Shelley e inoltre Emily Sunstain, Keats and Shelley Journal, n. 45, 1996. Fra le testimonianze circa la vita culturale e le «performances» dei giovani di «casa Godwin» le più indicative mi sembrano quelle di Claire Clairmont e di Aaron Burr, amico di Godwin e vice-presidente degli Stati Uniti.

Claire, molti anni dopo la fuga da casa, scriveva, non senza ironia, ad una amica:

[…] in our family, if you cannot write an epic poem or novel that by its originality knocks all other novels on the head, you are a despicable creature, not worth of acknowledging.» [Mrs. MARSHALL, Life of Mary Shelley, London, 1889, II, p. 248, cit. in WALLING, 1972, p. 25].

La testimonianza di Burr ci offre d’altra parte un quadro piuttosto dettagliato di come la famiglia trascorresse le serate e accogliesse gli ospiti. In occasione della sua visita ai Godwin il 15 febbraio 1812, Burr registra nel suo Journal:

[…] in the evening, William, the only son of W. [illiam] Godwin, a lad of about 9 years old, gave his weekly lecture; having heard how Coleridge and others lectured, he would also lecture; and one of his sisters (Mary, I think) writes a lecture, which he reads from a little pulpit which they have erected for him. He went through it with great gravity and decorum. The subject was, “The Influence of Governments on the Character of the People”. After the lecture we had tea, and the girls sang and danced an hour, and at nine came home». [In The private journals of Aaron Burr, Rochester 1903, II, p. 326, cit. in MARSHALL 1984, p. 293 e in GRYLLS 1938, p. 17].

7 Ancora nel 1823, nella corrispondenza di Mary, leggiamo:

Mrs K [Kenny] says that I am grown very like my Mother, especially in manners […] this is the most flattering thing any one could say to me. [BENNETT 1980-1988, vol. I, p. 376].

8 Dei racconti di Mary due sono le edizioni da segnalare: la prima del 1891, a cura di Richard Garnett, Tales and Stories by Mary Shelley; l’altra del 1976, a cura di Charles E. Robinson, Mary Shelley: Collected Tales and Stories. Segnalo inoltre l’edizione italiana di prossima pubblicazione con una scelta di racconti in traduzione a cura di Giovanna Silvani per la collana «Lo scaffale romantico» Firenze, Aletheia.

9 Vedi, citato anche da MARSHALL, Buxton Forman, H., The Elopement of Percy Bysshe Shelley and Mary Wollstonecraft Godwin, as Narrated by William Godwin, with Commentary (privately printed), 1911, p. 11.

¹º Merita citare al proposito la dedica a Mary che Shelley appone a The Revolt of Islam: «They say that thou wert lovely from thy birth, / Of glorious parents, thou aspiring Child».

11  In più occasioni Mary registra le molte aspettative che Godwin e Shelley nutrono nei suoi confronti:

I was nursed and fed with a love of glory. To be something great and good was the precept given me by my father: Shelley reiterated it [FELDMAN & SCOTT-KILVERT 1987, vol. II, p. 554].

12 Poco dopo la loro fuga, il 28 ottobre 1814, Mary scrive al compagno che è lontano da lei perchè deve nascondersi dai molti creditori:

[…] Goodnight my love – tomorrow I will seal this blessing on your lips dear good creature press me to you and hug your own Mary to your heart perhaps she will one day have a father till then be every thing to me love – & indeed I will be a good girl and never vex you any more I will learn Greek and – but when shall we meet when I may tell you all this & you will so sweetly reward me – oh we must meet soon for this is a dreary life […] [BENNETT 1980-1988, vol. I, p. 3].

13 Per una documentazione più articolata e per la lettura di questo testo rinvio all’edizione italiana tradotta e curata da Lia Guerra, Storia di una viaggio di sei settimane attraverso parte della Francia, della Svizzera, della Germania e dell’Olanda, con lettere che descrivono una gita in barca sul lago di Ginevra e i Ghiacciai di Chamonix, 1817. Aletheia (Collana «Lo scaffale romantico»), Firenze, 2000

14 È illuminante, alfine d’individuare i numerosi interventi di P. B. Shelley sulla prima stesura manoscritta di Mary, il lavoro di Charles E. Robinson pubblicato nel 1996 in due preziosi volumi che riproducono in facsimile l’originale [ROBINSON 1996].

¹ Among the topics of conversation during those nights following Byron’s proposal, one in particular seems to have caught her imagination. The ever-reticent Mary recalls that one of the “many and long conversations between Lord Byron and Shelley, to which I was a devout but nearly silent listener”, turned upon the “nature of the principle of life, and whether there was any probability of its ever being discovered and communicated”.. [HINDLE 1985/1992, «Introduction», p. xvi]

¹6 Sulla questione relativa alla «domesticity» o alla «ethic of care» rinvio a GILLIGAN 1982. Si veda anche Audrey A. Fisch, Plaguing Politics: AIDS, Deconstruction and The Las Man» in FISH, MELLOR, SCHOR, eds. 1993, pp. 267-86.

17 Il 17 gennaio a Shelley Mary scrive:

You were born to be a Don Quixote and if that celebrated person had ever existed except in the brain of Cervantes I should certainly form a theory of transmigration to prove that you lived in Spain some hundred years before & fought with Windmills […]. [BENNETT 1980-1988, vol. I, p. 27]

18 Ho già affrontato questo tema, seppure in altra prospettiva, nel saggio “Mary Shelley between Percy and William: A Revisionist Reader”, in Textus, vol. XI (1998), n.2 (July-December), pp. 306-316.


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