Diario post mortem

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Georgij Ivanov, nato nel 1894 nei pressi dell’attuale Kaunas (Lituania), dedicò la sua vita dai sedici anni in poi alla letteratura (poesia, prosa, saggistica e memorialistica). Dopo essere stato vicino ad alcuni movimenti del modernismo russo (egofuturismo e, in particolare, acmeismo), nel 1922 lasciò la Russia per Berlino, da dove, l’anno successivo, si spostò a Parigi. Qui ricoprì un ruolo di primo piano nella letteratura russa dell’emigrazione. Privato di tutto durante la Seconda Guerra Mondiale, concluse nel 1958 i suoi giorni nel sud della Francia, a Hyères.

Alessandro Niero (1968) insegna letteratura russa presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne dell’Università di Bologna.
Si occupa prevalentemente di poesia russa e di questioni di traduzione.
Per le sue versioni poetiche ha ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali.
Pensato in vita, pur se nella sua fase estrema, questo Diario post mortem vedrà effettivamente la luce come tale soltanto dopo la scomparsa di Georgij Ivanov.
L’opera ci pone di fronte a un poeta che comunica in limine mortis al lettore tutta l’improprietà delle sofisticazioni formali esibite, per recuperare, invece, una grazia semplice, una cortesia prosastica e una affabilità talvolta persino filastrocchesca, sentite come particolarmente intonate al prospettarsi dell’attimo fatale. Posto al cospetto della vanità del tutto, Ivanov si regge sul filo dello strumento espressivo che lo ha accompagnato da sempre – la poesia – e che anche ora si presenta come il luogo dove convogliare tutto se stesso. È, quindi, un disperato risolversi in canto la marca distintiva del Diario; e, quindi, uno sperimentare i limiti di quello stesso canto. Ma non si tratta tanto di una sorvegliata “poesia sulla poesia”, quanto della verifica estrema di come il medium prediletto sappia fare o meno “incetta di mondo” in versi. Scavallàti convenzione e artificio, abbandonato ogni residuo fumismo tecnico o intonazione affettata, Ivanov si prepara alla meta ultima armato di una sola cosa, effimera, ma non perciò meno sentita: la parola. Così il Diario ci offre il respiro, non mefitico, di un “dopomorte” già abitato dagli strumenti possentemente immaginativi della poesia.

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